Bergamo – I profughi scappati dal nord Africa e approdati nella nostra provincia sono ormai più di 300. Sono condannati all’ozio dalla legge italiana che non permette loro di fare nulla, se non attendere il proprio turno per presentarsi a Milano di fronte alla Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale. Ma la speranza di ottenere lo status di rifugiato si assottiglia di fronte al duro responso dei primi 23 casi esaminati: i dinieghi sono stati infatti ben 17.
Questo vale in particolar modo per chi è fuggito dalla Libia senza essere libico, infatti a trovarsi in maggior pericolo erano proprio gli stranieri, sospettati di essere mercenari al soldo di Gheddafi. Molti di essi mancano ormai da anni dai paesi d’origine, ma questo non sembra interessare i membri della commissione. Sfuggiti alle persecuzioni dei rispettivi regimi, alle guerre o alla miseria, arrivati in Libia dove lavoravano e guadagnavano bene, sono dovuti nuovamente scappare e ora rischiano di dover scegliere tra due alternative: rimanere in Italia come clandestini o essere rimpatriati nei loro paesi di origine. Questa opzione si presenta dopo mesi di inutile attesa, trascorsa nell’inoperosità forzata e dispersi a Lizzola, Albino, Bergamo, Palosco, Cene, Zogno, Camerata Cornello, Taleggio e Bianzano. Una petizione è stata indetta per richiedere il rilascio di un titolo di soggiorno ai richiedenti asilo provenienti dalla Libia.
Se questa situazione è imputabile alle normative che regolano le migrazioni nel nostro paese, un discorso a parte va fatto per analizzare come l’emergenza sia stata gestita nella nostra provincia, dove un ruolo predominante è stato svolto da Caritas.
Cominciamo col ribadire un dato che tutti tendono a dimenticarsi: i soldi per gestire l’accoglienza ci sono e non sono pochi. Per ogni profugo vengono stanziati 45 euro al giorno per coprire i costi di vitto, alloggio, alfabetizzazione, accompagnamento nelle pratiche burocratiche. Se moltiplichiamo questa cifra per il numero di profughi presenti nel nostro territorio e per la durata dell’accoglienza ci rendiamo conto che l’affare è enorme.
Cerchiamo allora di valutare la qualità del servizio di accoglienza erogato nei confronti dei profughi del Nord Africa.
Le testimonianze di operatori e richiedenti asilo concordano nel segnalare che le strutture di accoglienza sono ordinate secondo una gerarchia al cui livello inferiore si situa la Galgario. Quest’ultima è infatti la struttura peggiore in cui un profugo può finire, perché l’ospitalità viene garantita solo per la notte e l’ospite deve andarsene alla mattina per tornare alla sera, dopo avere trascorso tutta la giornata in giro. Essere costretti a gironzolare tutto il giorno può essere anche divertente il primo giorno, ma rischia di non essere un modello di integrazione efficace, soprattutto se inizia a protrarsi per mesi. La Galgario è riservata ai profughi più indisciplinati, che evidentemente violano le regole delle strutture dove sono ospitati. Accanto alle scontate regole di convivenza civile alcuni profughi testimoniano che è stato loro vietato di parlare con giornalisti, di partecipare a dibattiti e di rivolgersi autonomamente a sindacati per essere assistiti nella richiesta di asilo. Insomma le regole sembrano essere finalizzate non solo alla mera gestione della convivenza, ma bensì a un controllo che probabilmente travalica i compiti degli enti di assistenza.
A profughi giudicati problematici si rifiuta l’assistenza nel ricorso in caso di non riconoscimento dello status di rifugiato.
La dislocazione nelle strutture e l’assistenza per i ricorsi sono due tra i dispositivi che vengono utilizzati come strumento di controllo nei confronti dei profughi.
L’ambulatorio Oikos, che si occupa di garantire l’assistenza sanitaria ai migranti irregolari, ha rifiutato di prendersi in carico persone che, avendo un permesso di soggiorno come richiedenti asilo, avrebbero dovuto essere indirizzate direttamente all’ASL. Eppure tra i compiti degli enti ospitanti c’era anche l’accompagnamento per accedere al sistema sanitario nazionale
E’ curioso notare come, nel caso della Galgario, Caritas incassi già un contributo fisso per accogliere i senza fissa dimora. a cui può quindi sommare il fondo mensile per ogni singolo profugo, che viene inserito al posto dei senza tetto. Insomma si moltiplicano gli introiti senza raddoppiare il servizio. In altri casi Caritas ha stipulato delle convenzioni con soggetti privati che garantiscono vitto e alloggio ai profughi, senza però che a queste strutture venga erogata l’intera quota prevista, che viene curiosamente decurtata.
Eppure in altre città si sono sperimentati modelli di accoglienza diversi: a Torino per esempio ha prodotto ottimi risultati quella che l’amminitrazione ha definito accoglienza diffusa. Le associazioni più sensibili e attive sul tema delle migrazioni si sono assunte l’onere di raccogliere famiglie disponibili a ospitare i profughi e hanno svolto la funzione di coordinamento e monitoraggio. In questo modo i profughi sono stati inseriti in un contesto familiare, dove hanno potuto imparare l’italiano, hanno costruito relazioni, sviluppando progetti finalizzati all’autonomia. Il modello sperimentato a Bergamo da Caritas invece tende a mantenere in gruppi numerosi i profughi, a isolarli dalle reti sociali, deresponsabilizzandoli completamente anche nelle più elementari operazioni domestiche (pulizie). Gestire gruppi numerosi infatti ostacola l’assunzione di responsabilità e la partecipazione da parte dei migranti.
Presentarsi come l’unico ente in grado di gestire l’emergenza fa sì che Caritas rappresenti l’unico modello di accoglienza possibile, anche se i risultati dal punto di vista qualitativo lasciano a desiderare.
L’accoglienza dei profughi a Torino è costata 400 euro al mese, a Bergamo costa più del triplo. Ma forse a qualcuno conviene così, fino al prossimo finanziamento…
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