Profughi tra gestione ed emarginazione

Botta di Sedrina – E’ cronaca degli ultimi giorni lo spostamento dei profughi alla Casa San Giuseppe a Botta di Sedrina dalla Cà Matta in Maresana, il tafferuglio, la testata, il presidio leghista. Tralasciando la spicciola cronaca, sorgono spontanei riflessioni e interrogativi.

Per cosa stanno cantando vittoria i leghisti? Per avere spostato 24 profughi da Bergamo a Sedrina? Le camicie verdi argomentavano che la struttura Cà Matta di proprietà del Parco dei Colli, e in gestione al Sol.Co., era destinata ad un uso didattico educativo, per cui i profughi non avevano ragione d’essere là. I leghisti sono quindi ben felici di averli spostati altrove, la battaglia è vinta! Eppure, esiste davvero un altrove, un luogo separato, circoscritto dalla realtà dove spostarli?

Un’altra domanda batte a proposito: secondo quale logica i profughi furono sistemati proprio alla Cà Matta? La Caritas, che a Bergamo gestisce l’emergenza profughi, avrebbe decine di altri posti dove sistemarli. Si è dovuto arrivare al capanello, alla testata per spostarli. Chi ci ha rimesso realmente? Il profugo e la sua immagine.

Il profugo, in quanto persona fisica, spedito come un pacco postale da una parte all’altra della provincia. L’immagine del profugo, sempre legata ad un profilo di marginalità, devianza, insicurezza.

Secondo quale logica viene poi gestita l’emergenza profughi? Lo stesso termine “emergenza” lascia molte perplessità. Sono almeno tre anni che i profughi sbarcano sulle spiagge italiane, la situazione di Siria, Iraq, Palestina, Nord Africa e Africa subsahariana copre le pagine di tutti i quotidiani del mondo. Chiamare la presente situazione “emergenza” è quindi alquanto fuorviante.

Eppure questa terminologia è essenziale. L’”emergenza” permette di attivare un dispositivo legislativo per rispondere ad una situazione anomala. Di anomalo qui però non c’è nulla: i flussi di persone dal Nord Africa non si sono mai bloccati, UNHCR rivela statistiche impressionanti sul numero di richiedenti asilo politico in Italia. Così facendo si mantiene un sistema fragile dal punto di vista della qualità offerta. Manca la necessaria programmazione che assicura al profugo un percorso di integrazione nel paese ospitante. Manca una prospettiva, una visione che vada oltre l’oggi, che garantisca tutti, cittadini e stranieri.

Figlia della situazione emergenziale è la qualità con cui si gestisce l’accoglienza. Basta fare un salto a Botta di Sedrina per rendersi conto dello stato in cui vanno in giro i profughi: ciabatte, canottiere sbiadite, maglietta di seconda mano. Il servizio mensa è affidato ad un catering. Nessuno dei profughi, ad oggi, ha iniziato un corso di italiano. E’ un servizio d’albergo, un servizio reperibile in qualsiasi ostello, locanda, stamberga della provincia. Ma se lo fa la Caritas lo chiamiamo “Aiuto Umanitario”. L’obiettivo è allora fare numeri da rendicontare alla prefettura o tutelare persone? L’etichetta da sola non basta. Non basta scrivere “aiuto” per fornirlo.

35 euro sono i soldi di cui ogni profugo ha diritto al giorno. Questi soldi vengono affidati direttamente alla Caritas dal Ministero dell’Interno. Come vengono spesi? Quali libertà ha il singolo profugo di gestirli? Se vuole prendere un biglietto dell’autobus da Botta a Bergamo, o un caffè al bar, deve chiedere la mancetta agli operatori? Questo è un altro capitolo del tutto oscuro della vicenda. Da ricordare che i risultati di questa gestione hanno portato alla rivolta dei profughi libici alla Casa d’accoglienza Monsignor Amedei di Bergamo e all’hotel Roma di Gromo.

Tra l’altro si registra un disimpegno da parte dello stesso Stato: nell’”emergenza” libica, fronteggiata qualche anno fa, gli euro a disposizione per ogni rifugiato erano 46.

Inoltre, in quel caso vi era la possibilità di redigere convenzioni direttamente con il singolo cittadino come parte contraente. Ciò significava che ogni cittadino aveva la facoltà di ospitare profughi. Una soluzione mai valorizzata e ora abolita. Questa considerazione viene per ultima perché chiude un ragionamento. Tuttavia lo riapre: in termini di integrazione è meglio affidare ad un solo gestore che concentra profughi in aree periferiche, o a cittadini che inseriscono il profugo direttamente in un contesto di vita, in un tessuto relazionale, vivo; in un “dove” da contrapporre all’”altrove” che Lega e Caritas paiono inseguire pur partendo da presupposti diversi.

Infatti da un lato troviamo la Lega padrona a casa nostra, dove ormai “casa nostra” non risponde più alla logica della vecchia padania ma al singolo comune. Canta vittoria per aver fatto pressione per allontanare i migranti da un comune ad un altro. Non importa dove, l’importante è che non si veda e che magari qualche altra camicia verde si impegni per un altro presidio. Tanto la solidarietà ai migranti non è affare nostro, almeno fino a quando qualche imprenditore della zona non possa “usufruirne”.

Dall’altro troviamo cancellata una reale possibilità di integrazione dove ogni cittadino aveva la possibilità di ospitare profughi. Lasciando, così, campo aperto per tutte quelle cooperative che trasformano la solidarietà in misero aiuto e regimentando la singola libertà del profugo.

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One Response

  1. Gino Gelmi
    Gino Gelmi at |

    Le questioni poste dall’articolo richiederebbero un approfondimento, attraverso il confronto tra diversi soggetti interessati al tema. Anch’io a titolo personale perchè non l’abbiamo ancora discusso collettivamente come partito, trovo necessario sperimentare altre risposte alternative alla concentrazione in strutture. Ad esempio quella dell’affidamento a singole famiglie, opportunamente individuate tramite un bando che preveda l’accertamento dei requisiti logistici e di affidabilità, magari con la supervisione di qualche figura educativa che funzioni da aiuto e controllo. Se ne può parlare coinvolgendo servizi, associazioni e forze politiche disponibili?

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