Pubblichiamo una lettera spedita alla redazione da una ragazza bergamasca che ha appena vissuto una esperienza di lotta popolare contro il governo israeliano a Nabi Saleh in Cisgiordania. La peculiarità di tale testimonianza risiede nella capacità di registrare forme di resistenza che si svolgono in un territorio non attualmente documentato dai media, a differenza di Gaza, eppure altrettanto drammatico e carico di significati. In secondo luogo, riporta come in questo contesto la forma di lotta sia assunta attivamente dalle donne del comunità. Infine, dice come gli strumenti mediatici possano essere estremamente utili alla lotta, ne è esempio il fatto che fotografie, scattate durante manifestazioni, hanno potuto scagionare attivisti da accuse ingiuste mosse dal governo israeliano.
La lettera, oltre a essere un atto di denuncia, è una richiesta di supporto alla resistenza. Gli strumenti di documentazione a Nabi Saleh risultano non essere sufficienti affinché tutte le ragazze possano continuare il loro lavoro di mediattivismo. Questa mancanza rischia di indebolire la compattezza e la partecipazione dell’intero collettivo. Per questo motivo si è lanciata una campagna di crowdfunding: “Freeze or I shoot” con l’obiettivo di raccogliere fondi per l’acquisto di macchine fotografiche e videocamere che in un contesto come Nabi Saleh sono potenti armi per contrastare la violenza israeliana. Se volete aiutare il collettivo video-fotografico di Nabi Saleh visitate: http://www.namlebee.com/?np=proyecto&pro=95 o il blog www.nuralagatta.wordpress.com
«Prendete ciò che volete delle immagini,
per capire che mai saprete
come una pietra dalla nostra terra
erige il soffitto del nostro cielo.
Mahmoud Darwish – poeta palestinese
Sei mesi in Palestina ed io avevo imparato ad amare ogni pietra di Nabi Saleh.
Nel gennaio 2014 sono partita come volontaria dell’ong Servizio Civile Internazionale per un progetto di sostegno ai Comitati di Resistenza Popolare Nonviolenta in Palestina. Ho trascorso sei mesi a Nabi Saleh, un villaggio di 500 abitanti a pochi chilometri da Ramallah (Cisgiordania) ed è stata un’esperienza intensa, di condivisione e lotta comune che ha rafforzato il mio impegno nella difesa dei diritti umani. Pur essendo partita con una certa preparazione e conscia di ciò che mi aspettava, non si è mai realmente pronti quando ci son da affrontare proiettili sibillanti sparati ad altezza uomo, soffocanti nuvole di gas lacrimogeno, raid notturni, assedi, incursioni militari e una rabbia che monta giorno per giorno di fronte alla violenza utilizzata contro un movimento nonviolento di civili disarmati. Questa è la vita dei palestinesi e tutta questa violenza è eseguita da quello che si ama definire l’esercito più “morale” del mondo.
Nabi Saleh e la lotta popolare nonviolenta
A Nabi Saleh la lotta popolare nonviolenta è – inanzitutto – contro l’occupazione israeliana le cui politiche colonialiste di espansione territoriale hanno permesso all’insediamento israeliano illegale Halamish di confiscare terra appartenente ai residenti e con essa anche l’unica sorgente d’acqua che riforniva il villaggio. Dal 2009, ogni venerdì, Nabi Saleh partecipa alla manifestazioe settimanale contro l’occupazione israeliana e l’espansione di Halamish con l’obiettivo di raggiungere le terre rubate, ciò non avviene quasi mai dal momento che la risposta da parte dell’esercito israeliano è sempre la stessa: di repressione.
Prendendo ispirazione dalla sollevazione popolare della I Intifada, Nabi Saleh intende forgiare un proprio modello di resistenza che non necessariamente rientra nella connotazione occidentale (spesso erronea) di nonviolenza. Il lancio del sasso non rappresenta di certo un pericolo per uno degli eserciti più sofisticati e potenti del mondo, non è un’arma letale a differenza dei M16 e non è lanciato con l’intenzione di uccidere. Non può considerarsi un atto violento, quanto una difesa e una reazione allo stato d’oppressione a cui si è sottoposti. Il sasso è il simbolo della resistenza e il suo lancio porta con sè un messaggio: “Andatevene dalla nostra terra”.
Vivere sotto occupazione significa…
essere perennemente esposti a violazioni dei diritti umani. Negli ultimi anni organizzazioni internazionali quali Amnesty international e Al-Haqq hanno documentato come la respressione e la brutalità delle forze d’occupazione israeliane si sia intensificata nel tentativo di intimidire il movimento.
Vivere sotto occupazione affianco ai palestinesi ed essere una diretta testimone delle ingiustizie che devono subire quotidianamente, per quanto mi riguarda, ha significato cambiare chiave di lettura – non solo della realtà palestinese ma del sistema in senso globale – ed iniziare a ragionare in termini di: oppresso/oppressore, aggredito/aggressore, colonizzato/colonizzatore. Questo cambio di visione mi ha permesso di ricolocare al centro della questione il diritto di un popolo oppresso, ovvero dei palestinesi, di resistere con qualsiasi mezzo all’oppressore, ovvero allo Stato sionista israeliano il quale sta portando avanti da più di 60 anni una pulizia etnica dei palestinesi con la complicità della comunità internazionale. Non si può parlare di guerra, è doveroso invece parlare di colonialismo ai danni del popolo indigeno: i terreni vengono confiscati, le risorse sfruttate, i palestinesi sfollati, se non ammazzati e tutto in vista della creazione del Grande Israele, uno Stato a base etnico-religioso e, quindi, di certo non democratico.
I privilegi che possedevo da cittadina bianca europea quali: la libertà di movimento o il trattamento di favore ai checkpoint grazie al mio passaporto mi ha fatto riflettere parecchio sui vantaggi acquisiti da un passato coloniale. Questa maggior consapevolezza ha rafforzato la volontà da parte mia di sostenere il movimento di liberazione palestinese in una lotta comune contro – non solo l’occupazione – ma ogni forma di oppressione. In questo mio attivismo, l’utilizzo dei nuovi media è stato uno strumento fondamentale per poter documentare e investigare la realtà in cui ero immersa.
Media-attivismo come arma di denuncia
In risposta al servilismo della gran parte dei mainstream media occidentali e alla hasbara – propaganda – israeliana il mediattivismo in Palestina è diventato uno strumento importante nella costruzione di una contronarrazione in grado di colpire il potere dominante espondendo i crimini e le violazioni dei diritti umani eseguiti dallo stato israeliano e avviando quella che e’ stata definita una “guerigglia intelletuale”. Attivisti, bloggers e freelancers forniscono quotidianamento report, notizie e analisi partendo dall’interazione con i movimenti politici, gli spazi pubblici, le strade, le persone producendo una forza in grado di mobilitare le coscienze su questioni di giustizia sociale.
Nel caso specifico di Nabi Saleh, le potenzialità dei nuovi media è stata compresa fin da subito. Dall’inizio della lotta popolare si è voluto creare un ufficio stampa locale chiamato Tamimi Press, una fonte d’informazione alternativa nata dalla necessità di una comunità in lotta di abbattere i muri ed i confini internazionalizzando le proprie rivendicazioni. Il materiale raccolto serviva non solo per denunciare le violenze subite, ma in molti casi è stato utilizzato anche come prova per poter scagionare persone arrestate o condannare soldati colpevoli di violenza eccesiva (casi più rari).
In un contesto così stimolante, mi è stato lasciato lo spazio per poter approfondire alcune tematiche tra cui il ruolo delle donne nella lotta popolare di Nabi Saleh. Ho video-intervistate 4 generazioni di donne attive nella Resistenza e ciò che è emerso sono donne profondamente consapevoli del fatto che la liberazione non può prescindere dalla loro partecipazione. Una posizione che sfida le costruzioni di genere e segmenti della società che le vorrebbero passive. Abbiamo, inoltre, deciso di canalizzare questa determinazione creando con le ragazze un collettivo video-fotografico: il Youth Media Team, il quale documenta l’occupazione da un prospettiva prettamente femminile.
Partite.
Son tornata in Italia a giugno. Pochi giorni dopo son stati ritrovati i corpi dei tre coloni scomparsi e da allora vivo con un soffocante senso di impotenza. Tutti i giorni, scorro…scorro le notizie davanti a uno schermo e vorrei poter essere di nuovo accanto ai palestinesi, accanto a quella che è diventata la mia famiglia.
Le parole non saranno mai così incisive da riuscire a descrivere le ingiustizie viste/vissute così come gli stati d’animo che mi hanno accompagnato durante la mia permanenza in Palestina. Si fa fatica a spiegare.
Per questo – invece di fiumi di parole – mi limito a dirvi: partite, andate in Palestina.
Nora Tamimi »
– Foto di Nora Tamimi –