Lo dobbiamo a Viviana. A proposito di emergenza sanitaria e violenza di genere

Bergamo – Viviana è stata uccisa dal partner Cristian Michele Locatelli tra le mura domestiche, nella casa di famiglia che condivideva a Bergamo con i genitori e lo zio, nel mezzo della quarantena che da settimane costringe la popolazione urbana a un confinamento domiciliare tanto necessario quanto sofferto. Viviana è stata brutalizzata dall’uomo con cui condivideva la quarantena, il quale, insieme alla famiglia di lei, ha richiesto poi soccorso sanitario parlando di una caduta accidentale nel tentativo di nascondere la violenza raccapricciante consumatasi quella notte. Viviana è stata trasportata in ospedale quando le sue condizioni erano già disperate, al momento del ricovero era già in coma, e nel giro di una settimana si è spenta nella solitudine di una terapia intensiva avvelenata dal coronavirus e impenetrabile a chiunque fuorché pazienti e personale sanitario. Nonostante Viviana se ne sia andata la seconda settimana di aprile, l’arresto del suo aguzzino ‒ e con esso il dissiparsi della coltre di bugie e silenzi che avvolgeva questo femminicidio ‒ ha avuto luogo solo gli ultimi giorni del mese: le ferite di Viviana hanno subito insospettito gli inquirenti, il monitoraggio dell’uomo e della famiglia di Viviana (portando alla luce l’inconsistenza delle versioni da loro fornite) ha fatto il resto. Nel corso degli interrogatori, è lo zio ad aver ceduto, portando alla luce la verità di un pestaggio brutale e vigliacco, ma anche un clima di intimidazione e violenza psicologica da parte dell’aguzzino di Viviana che avrebbe riguardato anche il resto della famiglia della vittima e che potrebbe forse spiegare l’omertà che per settimane l’ha coperto.

Quello che è certo è che questo ennesimo femminicidio appare (se possibile) ancora più allarmante in considerazione della contingenza in cui ha avuto luogo. La condizione di confinamento domestico a cui il lockdown costringe la popolazione costituisce una minaccia stringente per l’incolumità di migliaia di donne che, nel quotidiano, erano vittime della violenza fisica, psicologica ed economica di compagni, mariti, ‘ex’ o parenti già prima della pandemia. Inutile rammentare quanto convivenza forzata, specie se in spazi domestici angusti e privi di privacy, e prossimità protratta al proprio aguzzino, a maggior ragione se in un quadro di stress e inquietudine crescenti, rappresentino per tutte queste donne una condizione gravosa se non intollerabile di rischio, le cui ricadute fisiche e psicologiche, quando non uccidono, sono destinate a lasciare ferite esteriori e interiori indelebili, e dunque ben oltre i termini del lockdown. Tanto più che non si può prevedere la durata dell’emergenza sanitaria in corso, che si parla già di una ‘nuova normalità’ implicante limitata mobilità e protratto confinamento domestico e che l’allentamento del lockdown lascia intravvedere una crisi economica senza precedenti che accrescerà le situazioni già a soglia di guardia di deprivazione economica, abbandono sociale e sconquasso di quotidianità e affetti. È dunque oltremodo necessario accendere un campanello di allarme: quella di Viviana è già ora sorte condivisa con altre donne in tutto il paese (i femminicidi sono stati 11 solo a Marzo), come altre odiose violenze continueranno a lasciare il segno della pandemia sui corpi delle donne.

Fin dal mese scorso, i centri antiviolenza della provincia avevano palesato quanto il lockdown rendesse ancora più emergenziale la condizione delle donne vittime di violenza, costrette in spazi domestici vissuti con angoscia o paura, se non direttamente desiderio di fuga. Malgrado i centri antiviolenza siano rimasti operativi telefonicamente, la cooperativa ‘Sirio’, responsabile del servizio nella Bassa Bergamasca, denunciava il bivio drammatico delle donne assistite, costrette a scegliere il ‘male minore’ tra il rischio esterno di contagio e il confinamento entro un contesto domestico violento. La scorsa settimana, poi, dopo gli sviluppi agghiaccianti sulla morte di Viviana, il grido di allarme si è fatto più drammatico. Le dichiarazioni rilasciate alla stampa dalla Coordinatrice della Rete Antiviolenza della Bassa Bergamasca Cecilia Gipponi, facendo eco a quelle del 2 aprile dell’omologa per l’Isola bergamasca Maria Teresa Heredia, hanno portato alla luce il calo drastico dei contatti con i centri antiviolenza, ricondotto alle difficoltà di fruire del sostegno telefonico (e, dunque, di formulare richieste di aiuto) a causa della coercitiva prossimità al proprio aguzzino. Ad affiorare è la ‘nuova normalità’ con cui le donne vittime di violenza si misureranno nella Fase 2 dell’emergenza, fatta di contatti telefonici fugaci che non si traducono in percorsi di uscita dalla violenza, da telefonate ‘rubate’ dal bagno di casa con l’acqua che scorre per non essere udite. Dello stesso tenore l’appello del Centro antiviolenza ‘Aiuto Donna’ di Bergamo alle donne vittime di violenza, perché non rinuncino a tentare telefonate di nascosto se in cerca di aiuto.

Se tali appelli restituiscono l’eco di situazioni estreme, il tema non trova però spazio nella tanto dibattuta Fase 2. Da un lato, vi è il braccio di ferro in corso dal 2017 tra Regione Lombardia e centri antiviolenza, innescato dalla legittima opposizione di questi ultimi verso la rilevazione del codice fiscale delle donne vittime di violenza, che, pregiudicandone l’anonimato, mina la sicurezza dei percorsi di uscita dalla violenza. La vertenza non ha trovato composizione nemmeno in presenza dell’attuale emergenza: il governo leghista ha approvato a fine febbraio un piano quadriennale in materia, stigmatizzato dal Consigliere regionale Matteo Piloni del PD come inadeguato per quanto concerne «certezza dei finanziamenti e tutela dell’anonimato», nonché epurato degli emendamenti «volti a risolvere le criticità evidenziate dalle reti antiviolenza» e, in particolare, di quello rivolto al superamento dell’impasse sulla questione dirimente del codice fiscale e della garanzia (tramite codici alfanumerici) di pieno anonimato per le donne vittima di violenza. Dall’altro lato, vi è la Fase 2 del governo di Giuseppe Conte, che non contempla l’emergenza delle donne vittime di violenza come priorità. Basti menzionare le critiche rivolte al governo da Antonella Veltri a inizio aprile, quando la Presidentessa di ‘Donne in rete contro la violenza’ denunciava l’assenza di fondi straordinari per consentire ai centri antiviolenza di fronteggiare la fase emergenziale (i 30 milioni sbloccati dalla Ministra per le Pari Opportunità e la Famiglia Elena Bonetti costituiscono infatti fondi ordinari previsti nel 2019 e già allora ritenuti insufficienti).

Non è tutto. Il piano del governo per la Fase 2, trascinato dall’imperativo della ripartenza della produzione industriale ad ogni costo, rischia di aggravare una situazione già drammatica, con ricadute che si estendono però ben oltre la questione della violenza sulle donne segnando un arretramento della condizione femminile in generale. L’impressione è che l’apertura in materia di mobilità e relazioni sociali posta nella formula vaga del ricongiungimento tra ‘congiunti’ ‒ dove la nozione si riferisce a coniugi, partner conviventi o in unione civile, persone legate da stabile legame affettivo, parenti fino al sesto grado e affini fino al quarto ‒ nasconda l’intento di riattivare le reti parentali per scaricare sulle stesse i costi sociali di una ripartenza prematura, in perfetta continuità con l’impostazione familistica del welfare italiano che strutturalmente affida larga parte delle attività di cura e protezione sociale alla famiglia. Si pensi alle coppie con minori a carico chiamate dalle nuove disposizioni a riprendere l’attività lavorativa in presenza di una chiusura perdurante non solo di asili nido, scuole materne e istituzioni scolastiche, ma anche di strutture ricettive dedicate al tempo libero; le funzioni di cura ricadranno prioritariamente sulla rete parentale, anziani in primis, con il rischio per altro di innescare una pericolosa spirale di nuovi contagi da chi lavora verso tale categoria particolarmente vulnerabile per tramite di minori incolpevoli. Aldilà delle evidenti criticità di ordine sanitario, è chiaro come all’interno dei nuclei familiari ciò rischi di riprodurre e rafforzare gli squilibri di genere, a detrimento delle donne.

Se tali meccanismi tendono verso un aggravamento inevitabile dei rischi per l’incolumità e la salute psico-fisica delle donne vittime di violenza nel contesto domestico, non è difficile immaginare come possano facilmente acuire anche condizioni di subordinazione e sfruttamento delle donne all’interno di reti parentali dove le stesse subiscono già subalternità, distribuzione discriminante del carico di lavoro e delle risorse, e relazioni di genere gerarchizzate. Non solo. Persino all’interno di nuclei familiari dove le donne sperimentano condizioni di parità ed equità ‘formali’ e adeguato posizionamento occupazionale (al netto del persistere di sensibili asimmetrie salariali di genere su scala nazionale), la radicata tendenza alla ‘femminilizzazione’ delle funzioni di cura, nel quadro attuale di ‘convivenza col virus’ e ripartenza selettiva, rischia di accrescere gli squilibri di genere a scapito della componente femminile della popolazione quanto ad accesso, permanenza e crescita nel sistema occupazionale, organizzazione del tempo libero e ripartizione delle attività genitoriali. Tanto il governo nazionale quanto quello regionale su questo non hanno previsto alcuno ammortizzatore specifico o rafforzamento del sistema di welfare, dimostrazione, aldilà delle dichiarazioni di intenti, di una inattenzione macroscopica verso la questione di genere. Si è accennato a bonus babysitter e congedi parentali, ma i primi a marzo erano irrisori e i secondi avevano un massimale di giorni mensili e sono corrisposti a una decurtazione salariale sostanziale. Su chi ricadranno dunque i costi sociali di questa ripartenza?

È una domanda legittima, a maggior ragione perché tale meccanismo di scarico dei costi sociali (ma anche produttivi) associati all’emergenza sanitaria e alla crisi economica che prefigura tende a colpire con maggiore violenza le fasce di popolazione più deprivate, dunque i nuclei familiari (e, al loro interno, le donne) che non possono contare su reti parentali sane e supportanti, coloro che non hanno le risorse per demandare le funzioni di cura domestica e genitoriale a una babysitter, una badante o una collaboratrice domestica. Donne anche queste ultime nella maggioranza dei casi, a loro volta esposte alle stesse asimmetrie nel lavoro di cura domestico e genitoriale (e, non di rado, agli stessi rapporti violenti o subordinanti) delle famiglie che ne assumono i servigi. Chi dunque pagherà i costi sociali della ripartenza? Non si tratta solo di una domanda legittima, è anche una domanda necessaria. La missione della nostra redazione in questa emergenza è quella di continuare a cercare risposta a questa domanda, tentare di comprendere e mettere nero su bianco le responsabilità politiche, perché la crisi che viene non ricada su altre donne con la stessa violenza con cui un uomo vigliacco ha strappato la vita a Viviana. BgReport non lascerà che sulla morte di Viviana cali il silenzio: continueremo a osservare e scavare, perché sia fatta piena giustizia. Sappiamo che accadrà ancora, che accadrà ad altre. Ma vorremmo che sapeste che questa redazione vi è alleata e che combatterà questa battaglia fino all’ultimo colpo, perché nessuna in questa crisi sia lasciata indietro. Lo dobbiamo a Viviana.

Print Friendly, PDF & Email

Leave a Reply

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.