La strage degli uomini che odiano le donne. Ogni due giorni in Italia una donna uccisa dal compagno
Quota 60 abbondantemente superata.
Tante sono le vittime di “femminicidio” dall’inizio del 2012 in Italia. E il conto è presto fatto: ogni due o al massimo tre giorni una donna viene ammazzata da un uomo, e quasi sempre l’assassino è il marito, il convivente o l’ex partner che non accetta di essere lasciato.
Nelle ultime settimane è successo a Napoli, Vicenza, Milano. Solo lo scorso ottobre è successo anche a Bergamo e non era certo la prima volta. E non c’è nessuno stereotipo che permetta, a chi non vuole vedere la realtà, di digerire un pochino “meglio” questa strage lenta e costante attribuendo la responsabilità di queste uccisioni a categorie più o meno facili da disprezzare e criminalizzare. Perché a Napoli ad uccidere è stato un poliziotto in pensione (ha sfracellato la testa della donna sul pavimento), a Vicenza un fidanzato straniero con qualche precedente penale (ha ucciso a coltellate), a Bergamo un marito italiano “qualsiasi” (ha strangolato la moglie 28enne). A Milano, proprio nei giorni scorsi, un “rispettabilissimo” notaio (che ha scelto di sparare alla compagna-amante).
E qual è la realtà che bisognerebbe vedere?
Eccola: la violenza è maschile, punto. E aggiungiamo: chi taglia i fondi ai centri antiviolenza, chi racconta queste uccisioni parlando di raptus o momenti di follia, chi priva le donne dei propri diritti (facendo firmare al momento dell’assunzione le dimissioni in caso di gravidanza, ad esempio) è complice. Complice di una cultura maschilista e machista che in Italia si perpetua, si alimenta, si nutre di stereotipi e di mercificazione dei corpi femminili, di sfruttamento delle donne nei posti di lavoro, di tagli al welfare che impediscono alle donne di essere autonome.
Tutto questo è “femminicidio”: non è solo l’uccisione di una donna da parte di un uomo, è ogni gesto di violenza fisica, psicologica o economica che priva le donne di autonomia, di diritti, di rispetto e dignità. Ultimamente si stanno moltiplicando gli appelli contro il femminicidio: tutti chiedono che la strage sia fermata, che le istituzioni si facciano carico di un problema che è sociale, perchè in Italia colpisce una donna su tre almeno una volta nella vita.
Non esistono ricette, nessuno pensa che arrestare questa violenza possa essere facile ed immediato ma qualche idea praticabile c’è, provando ad andare oltre le raccolte di firme. Si potrebbero, ad esempio, finanziare i centri antiviolenza, che svolgono un enorme lavoro di accoglienza e aiuto (una nota: Renata Polverini, tra le firmatarie dell’appello contro la violenza della rete “Se non ora quando”, ha di recente tagliato ulteriormente le risorse destinate ai centri antiviolenza del Lazio. Non sono poche le donne con posizioni istituzionali che aderiscono alle campagne e poi nulla fanno per sostenere realmente le donne); e poi si potrebbero formare le forze dell’ordine, perché la smettano di invitare le donne che denunciano violenza a “portare un po’ di pazienza”, cosa che purtroppo spesso accade. E, ancora, perché non provare a mettere in discussione una cultura patriarcale e sessista che rende le donne oggetti e non soggetti, lavorando sull’educazione e la formazione tanto per cominciare? E perché non cambiare radicalmente un diffusissimo linguaggio giornalistico che continua a parlare di raptus di follia e delitti passionali invece che di violenza di genere e femminicidio?
Perchè in nove casi su dieci chi uccide ha già maltrattato a lungo la propria vittima, minacciando, picchiando, violentando e ricattando: l’uccisione non è altro che l’ultima tragica limitazione alla libertà e alla dignità femminile.
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