Pubblichiamo volentieri un contributo dell’Istituto bergamasco per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea.
Il Giorno della Memoria è diventata data del calendario civile da vent’anni: ci sono ormai generazioni che durante tutto il loro percorso scolastico, ad ogni 27 gennaio, si sono fermate a “ricordare”. Una sensibilità e una conoscenza più diffusa della deportazione si sono radicate nella nostra comunità. Tuttavia, ufficializzata, anche la data del 27 gennaio si presta ad un uso retorico e stereotipato che la rende una sterile ripetizione, giustificazione di un presente più propenso a commemorare per auto-assolversi, che a fare i conti con il proprio passato e i propri modi di essere. Primo Levi, autodefinendosi “uomo normale di buona memoria”, suggeriva che la memoria non rende automaticamente migliori, ma può aiutare a diventare curiosi di quanto ci circonda, può aiutare a rimanere cittadini vigili e inquieti.
È con questo spirito che ci accingiamo a concentrarci sulla nostra città e il suo tessuto urbano. Per affrontare il tema della deportazione nella sua complessità bisogna ritornare all’8 settembre 1943: nel territorio italiano occupato dai nazisti (a Bergamo i tedeschi entrano il 10 settembre), là dove il fascismo si è riorganizzato con la Repubblica sociale italiana, la persecuzione dei diritti dei cittadini definiti per legge “ebrei” diventa persecuzione delle vite e la repressione dell’opposizione politica caccia ai Banditen, da fucilare, processare, deportare.
Se non vanno dimenticati gli Internati militari italiani la cui esperienza fu propria anche di molti bergamaschi, concentriamoci questa volta su due luoghi cittadini che ci aiutano a entrare nella storia evocata dal Giorno della Memoria e che sotto questo aspetto possono apparire oggi trascurati.
Il primo luogo è la ex Caserma Montelungo, allora Umberto I, che funzionò come campo di transito nel 1944: ripensata dalla caserma, Bergamo è quindi da considerarsi a pieno titolo parte integrante dell’universo concentrazionario. Tra il marzo e l’aprile 1944, dopo gli scioperi che bloccarono il triangolo industriale del nord-ovest, la caserma è il luogo di concentramento per 835 uomini e donne (prevalentemente uomini). La maggior parte di loro è stata arrestata dopo gli scioperi, spesso di notte e dalla milizia che li consegna poi all’autorità tedesca. Tra loro sono presenti anche alcuni partigiani, soprattutto piemontesi, che catturati in montagne hanno condiviso le carceri di Torino con gli scioperanti. Stipati nei cameroni affacciati su vicolo San Giovanni, furono tutti deportati con due convogli partiti dalla stazione di Bergamo con destinazione Mauthausen (17 marzo e 5 aprile). Qui le donne sostarono senza essere immatricolate: lo furono a Auschwitz – Birkenau dove arrivarono passando per le carceri di Vienna. Oggi esiste una lapide sul primo binario della stazione, la lista completa dei nomi di questi uomini e donne (stilata da Giuseppe Valota dell’Aned) e uno spettacolo di Renato Sarti (Matilde e il tram di San Vittore) che evoca il ruolo delle donne, moglie e madri, degli uomini chiusi nella caserma e la loro tenacia nel cercare informazioni, nel non arrendersi alla violenza nazifascista (lo spettacolo è offerto alla cittadinanza dal Comune di Bergamo il 1° febbraio cfr. programma del Comune). Isrec e Aned sono impegnanti nella ricostruzione della storia della caserma ed è con grande rammarico che abbiamo constatato quanto i primi lavori per il rifacimento del luogo non abbiano previsto un approfondimento specifico rispetto a questo tema. Come spesso capita lo studio archeologico del sito avviato preliminarmente è stato realizzato per i secoli passati e si è così persa l’occasione di applicare l’archeologia al Novecento finendo per cancellare tracce importanti che avrebbero potuto essere stimoli della memoria. Non sappiamo come procederanno i lavori, ma ci auguriamo che nella nostra collettività si radichi la consapevolezza che Bergamo è stata parte dell’universo dei Lager, come Fossoli, Bolzano o il binario 21 di Milano.
Il secondo luogo è il carcere di Sant’Agata. Con la circolare n. 5 del 1° dicembre 1943, la RSI predispone il concentramento degli “ebrei” in appositi campi provinciali, prima tappa verso la deportazione. Dalla provincia bergamasca furono deportate 45 persone, di cui solo 3 fecero ritorno. Tra gli arrestati un buon numero fu rinchiuso a Sant’Agata tanto che, pur non avendone la certezza definitiva, si può avanzare l’ipotesi che il carcere abbia appunto funzionato come campo provinciale: qui i catturati furono concentrati prima di essere trasferiti (passando spesso per San Vittore) a Fossoli, ma anche a Bolzano, Verona o Milano (binario 21) e quindi tutti deportati ad Auschwitz. Nelle celle del carcere di Sant’Agata le storie di questi uomini e donne perseguitati da un paese diventato razzista per legge dal 1938 incontrarono quelle di partigiane e partigiani, antifasciste e antifascisti. Tra questi, dal carcere alcuni escono per essere fucilati, altri per essere trasferiti (ancora via San Vittore) soprattutto nei campi di Fossoli e Bolzano e da lì deportati nei Lager del Reich, altri ancora, processati, per essere inviati nelle carceri tedesche. È così che il carcere, con le sue storie, è luogo strategico per guardare alla deportazione al di là dei facili stereotipi comodi per le celebrazioni perché “se quei muri potessero parlare”, come diceva una donna passata dal carcere di Sant’Agata e imprigionata in quello di Aichah, ci racconterebbero nel cuore di città alta quell’intreccio di storie capaci di non far dimenticare che dietro al trasferimento nel Reich di popolazione civile c’è un progetto politico che mira a una trasformazione del volto dell’Europa. È per non perdere tutte queste storie, individuali, semplici e necessarie, che “Se quei muri potessero parlare” è diventato un progetto di Isrec e Maite-Ex-Sa teso a far riemergere dentro il carcere il periodo 1943-1945, come periodo cruciale nella storia del nostro paese, patrimonio di storie da custodire. Anche il carcere è infatti un luogo soggetto oggi a un’importante opera di riqualificazione e crediamo indispensabile che diventi di tutti l’impegno di Maite Ex-Sa per il riconoscimento del luogo quale bene comune da conservare. Esistono infatti parti del carcere non ancora toccate dai lavori di riqualificazione, come il corridoio al secondo piano, in cui il tempo si è fermato nei muri scrostati e nelle porte arrugginite e ci auguriamo che queste tracce continuino a restare un luogo di memoria della nostra città e non finiscano inghiottite dal ritmo frenetico di una città turistica in espansione.
Prendersi cura dei luoghi è come prendersi cura dei corpi: è compiere gesti quotidiani in cui si iscrivono radicali scelte politiche cariche di passato, ma aperte all’ immaginazione del futuro, proprio come la memoria.