Bergamo – La marcia per i diritti del rifugiato è stata organizzata sabato 18 Giugno anche a Bergamo, in occasione della Giornata internazionale del rifugiato dal Forum provinciale dei richiedenti asilo, il Comune di Bergamo, gli enti locali per la pace e la Caritas diocesana. Le richieste di questi enti sono rivolte a tutti i livelli dell’accoglienza, dal locale all’europeo; l’appello è infatti indirizzato ai comuni, perché sperimentino maggiormente l’accoglienza diffusa sul territorio bergamasco, alla regione Lombardia, perché la residenza non venga più posta come condizione di accesso ai servizi offerti dalla Regione stessa, al governo, perché venga estesa anche ai migranti economici la possibilità di un permesso di soggiorno umanitario, e all’Europa, perché riveda l’accordo con la Turchia. Alla presenza degli assessori Marchesi e Angeloni, il sindaco Giorgio Gori ha sottolineato l’importanza dell’accoglienza, anche per chi viene considerato solo “migrante economico”. Partendo dalla Prefettura, la marcia è giunta in Piazza Vecchia, dove è stato messo in scena uno spettacolo teatrale sulla migrazione.
La manifestazione ha avuto luogo in un periodo sicuramente non semplice per l’accoglienza: non solo nel contesto nazionale, ma anche nella cronaca locale le notizie a riguardo si sono susseguite per tutto l’anno. In particolare, a Gennaio erano stati pubblicati i dati sulle richieste di riconoscimento dello status di rifugiato a Bergamo, da cui emergeva che solo il 27% su 361 richiedenti asilo nel 2015 ha ottenuto una forma di protezione (17 riconoscimenti di asilo, 59 di protezione umanitaria, 14 sussidiaria). A queste cifre bisogna comunque aggiungere l’alta percentuale (73%) dei ricorsi che va a buon fine per il richiedente asilo, a cui è dunque in ultima istanza riconosciuta una qualche forma di tutela. Quanto alla presenza di migranti in bergamasca, i dati riepilogativi della Prefettura, all’11 maggio 2016, fotografano una situazione tutt’altro che emergenziale:un totale di 1518 persone, in una provincia che ne conta 1.108.298 (dati Istat 2015). Una percentuale dello 0,13%, dunque, che ha ben poco dell’invasione.
Un problema centrale resta tuttavia la lentezza della burocrazia nostrana: le richieste totali di protezione a Bergamo nel 2015 sono infatti 1450, in larga parte non ancora esaminate. Come soluzione, ad aprile 2016 è stata aperta una sottocommissione per la valutazione delle richieste anche in città (sempre comunque in dipendenza dalla commissione di Brescia), in modo tale da diminuire la media di 18 mesi che un migrante attende nelle strutture di accoglienza per avere una risposta sul proprio status. Questo lasso di tempo è particolarmente problematico anche perché nel frattempo i migranti non possono lavorare né svolgere alcuna attività, in quanto privi di documenti. In realtà, grazie ad un protocollo particolare, in diversi casi ai migranti sono stati affidati lavori volontari socialmente utili (pulizia delle strade strade, taglio delle siepi…). La questione è talmente spinosa che Gori stesso aveva proposto, insieme alla Caritas, un permesso umanitario a tutti per il primo anno, in modo da regolarizzare le presenze sul territorio in attesa di una risposta della commissione.
Anche durante la marcia Gori ha ribadito questa necessità, vincolandola però ad alcuni “doveri” dei migranti stessi: imparare la lingua ed un lavoro e continuare a fare volontariato con attività poco o non pagate, per mostrare alla gente la propria “buona volontà” di integrarsi. In questo contesto, non si tiene conto, tuttavia, di un aspetto fondamentale: molti migranti non vogliono infatti restare in Italia, ma ne sono costretti dall’accordo di Dublino, firmato anche dal governo nostrano, che obbliga a chiedere l’asilo nel primo paese nel quale vengono identificati. Questa visione paternalistica del migrante, a cui è necessario insegnare un mestiere e la lingua, dimentica anche che spesso le persone che arrivano hanno lauree e un progetto di vita avviato nel paese d’origine, e potrebbero offrire competenze già formate se li si mette nelle condizioni di farlo.
Un altro nodo dell’accoglienza riguarda poi le residenze: infatti, coloro ai quali viene riconosciuta una qualche forma di protezione, hanno diritto alla residenza nel comune dove sono ospitati; ma ciò ha infiammato le polemiche da parte di chi (della Lega, ma non solo) affermava che in tal modo si sarebbe dovuto attingere alle casse del comune. In realtà, i 37,50 euro dati dal Ministero dell’Interno alle cooperative che gestiscono l’accoglienza servono proprio a garantire servizi minimi, evitando dunque di gravare sulle casse comunali; per di più, per legge un’amministrazione non può rifiutarsi di concedere la residenza a qualcuno. Il problema dell’aggravio sulle tasse del comune si porrebbe solo nel caso in cui un migrante non venisse più seguito dal progetto della cooperativa; come ogni altro cittadino, però, avrebbe allora il diritto di vedersi riconosciuti degli aiuti. Il comune, in ogni caso, può rifiutarli qualora le sue finanze non lo permettessero, esattamente come già accade ora con qualsiasi altro residente. Insomma, un grande polverone per nulla.
Le situazioni più difficoltose e problematiche restano comunque quelle in cui si registrano grandi presenze di migranti, a fronte di una popolazione ridotta: la soluzione migliore appare dunque quella di mantenere dei numeri bassi, coinvolgendo più comuni possibili. Nonostante le difficoltà registrate, infatti, la strada dell’accoglienza diffusa sembra funzionare: convince anche sempre più comuni della Provincia, come Levate (capofila di altri quattro Comuni, Boltiere, Dalmine, Osio Sotto e Valbrembo) e la Valcavallina, che si sono aggiudicati i fondi del Viminale per due progetti dello Sprar (l’ente nazionale che coordina i servizi ai rifugiati e richiedenti asilo); in entrambi i casi si prevedono numeri piccoli (37 migranti in una decina di appartamenti) sparsi in più città, in modo da evitare i grandi raggruppamenti che tante polemiche avevano creato in passato.
L’aspetto più problematico del sistema dell’accoglienza riguarda le numerose persone a cui viene rifiutata ogni forma di protezione (asilo politico, protezione umanitaria, protezione sussidiaria) e che, non più beneficiarie di alcun sussidio, dall’oggi al domani si trovano a dover sopravvivere senza risorse, diventando di fatto clandestine. Lo stesso sindaco Gori ha lanciato un appello al governo, perché velocizzi le pratiche dei rimpatri forzati, per evitare queste situazioni problematiche in città. Tuttora, i criteri per l’assegnazione dell’asilo non sono flessibili e non tengono conto di diversi fattori: ad esempio, persone provenienti dall’Africa centrale che da anni vivevano in Libia, dalla quale sono scappate in seguito all’inizio della guerra, si vedono rifiutate le richieste, in quanto non native di uno stato considerato “in conflitto”. Per non parlare, infine, dei cosiddetti “migranti economici”, non profughi di guerra ma persone che fuggono dalla povertà, a cui oggi in Europa non viene riconosciuto alcun diritto. Per questo motivo, ancora maggiore rilevanza assume allora la richiesta di istituire per loro un permesso umanitario.