Bergamo – Il ricorso al TAR promosso dal titolare di un sexy shop contro il regolamento per la salvaguardia dei borghi storici emanato dal comune di Bergamo ha prodotto effetti dirompenti. Se infatti il titolare del sexy shop non potrà riaprire la propria attività perchè devono essere rispettate le distanze dai luoghi definiti sensibili dal regolamento, come chiese, scuole, ospedali, etc, il TAR non ha esitato a definire la preclusione ad alcune tipologie di attività imposta dall’amministrazione comunale “irragionevole e sproporzionata”. Ma il TAR si spinge oltre. Rimprovera all’amministrazione Tentorio di non aver nemmeno prodotto un’analisi puntuale dei dati economici, sottolineando la mancanza di approfondimenti e di una relazione aggiornata sul contesto socio-ambientale relativa ai borghi storici. Il regolamento prevede il divieto di nuovi esercizi come kebab, phone center, centri scommesse, sexy shop, pita gyros, lavanderie a gettoni, money transfer, distributori automatici e anche negozi con vendita di prodotti prevalentemente di origine extra europea. Il tutto per “salvaguardare il decoro, la sicurezza urbana, la cultura e l’identità locale”.
La superficialità con cui è stato redatto questo regolamento ha immediatamente prodotto il moltiplicarsi di ricorsi al TAR da parte di chi si è sentito discriminato. I ricorsi avranno dei costi per le casse comunali dell’amministrazione che rischia di dover sperperare altro denaro pubblico in caso il tribunale dia ragione ai ricorrenti. Le difficoltà dell’amministrazione in future cause si intuiscono dalla posizione che il tribunale amministrativo ha assunto di fronte al caso particolare del sexy shop: l’imposizione di distanze minime da luoghi sensibili è ammissibile, ma la libera concorrenza è individuata come il principio cardine da salvaguardare.
Il regolamento comunale è stato emanato in virtù dei poteri riservati alle amministrazioni comunali dalla legge regionale del 2009, voluta dall’assessore Belotti, che era riuscito ad attirare l’attenzione persino del New York Times. La legge prevedeva il divieto di consumare all’esterno dei locali qualsiasi cibo o bevanda. Paradossale l’effetto che questa legge aveva, negando la possibilità di consumare un cono gelato passeggiando.
Città Alta è l’esempio più emblematico di questo problema. La maggior parte delle abitazioni all’interno delle mura venete erano storicamente abitate dai bergamaschi meno abbienti, e le strade erano piene di piccole botteghe artigiane, osterie e negozi di alimentari. Negli ultimi decenni, invece, Città Alta ha subìto una trasformazione radicale. Le botteghe sono state sostituite da negozi di gioielli e abbigliamento, i generi alimentari sono diventati sempre più cari e la speculazione immobiliare ha fatto lievitare i costi delle case. Le fasce di popolazione in difficoltà sono state così costrette ad abbandonare il borgo storico.
Il risultato di questa trasformazione è che un quartiere popolare come quello di Città Alta si è trasformato in una vetrina per turisti, una specie di centro commerciale all’aperto incastonato in uno dei borghi più belli d’Italia. Quando il borgo ha ormai espulso i settori popolari che lo abitavano, si finge preoccupazione per l’apertura di attività che vengono individuate come lesive dell’identità locale. Non si capisce quale sia il criterio per cui un venditore di kebab dovrebbe essere maggiormente in contraddizione con il contesto locale rispetto a un negozio come Kiko. Perché una lavanderia a gettoni dovrebbe compromettere il decoro urbano? Potrebbe essere un’iniziativa privata capace di rispondere a un bisogno diffuso per un borgo abitato da molti studenti fuori sede e da professori, proprio come il lavatoio di via Lupo, fiore all’occhiello del turismo, rispondeva agli stessi bisogni.
Sembra strano che in una città disseminata di banche uno sportello per fare operazione di money transfer dovrebbe essere percepito come elemento di disturbo per l’ordine pubblico. La visione miope degli amministratori non è in grado di leggere i territori che dovrebbero governare, alimentando una retorica discriminante che produce il tentativo grossolano di identificare attività economiche su base etnica. Provare a dividere le popolazioni che abitano questi territori sulla base del cibo che consumano risulta risibile dalla semplice osservazione dei principali avventori dei negozi di kebab.
Il cibo è sempre stato un terreno di incontro tra le persone, sia come momento di socialità, sia come elemento di arricchimento reciproco. Basterebbe chiedersi da dove viene il mais con cui cuciniamo la nostra polenta per rendersene conto.