La storia del gruppo tra disastri ambientali, corruzione e spartizioni politiche
L’Ente Nazionale Idrocarburi è l’azienda statale che figura come general contractor nel consorzio CEPAV 2, incaricato da Ferrovie dello Stato della realizzazione della tratta ad alta velocità tra Treviglio e Brescia. Si è ricordato più volte nelle precedenti puntate di questa inchiesta come il consorzio abbia ricevuto l’incarico senza alcuna gara d’appalto e come questa circostanza abbia fatto lievitare i costi dell’opera fino alla cifra record di 35 milioni di euro al chilometro (il soggetto appaltatore, in assenza di concorrenza, non ha evidentemente alcuno stimolo ha proporre un’offerta economicamente vantaggiosa). Nelle precedenti puntate abbiamo anche ricostruito l’identikit dei colossi di costruzione generale aderenti al consorzio, ovvero Maltauro e Pizzarotti (rispettivamente con quote del 12 e del 24 %), osservando come varie vicende giudiziarie connesse all’attività dei due gruppi finiscano inevitabilmente per alimentare le preoccupazioni circa la gestione dei cantieri dell’alta velocità nella provincia di Bergamo e l’impatto che questa opera avrà sul territorio. A maggior ragione se lo scandalo esploso attorno alla gestione dei cantieri dell’autostrada BreBeMI e la fitta rete di corruzione che la magistratura sta ora portando a galla sembrano di fatto confermare una gestione privatistica e occulta dei beni pubblici, dove l’interesse collettivo viene subordinato alle iniziative di attori preminenti del mercato e centri di potere politico, senza considerazione alcuna non solo per le regole elementari della democrazia ma anche per la salute di coloro che abitano i territori. In questo senso, la biografia delle società controllate da ENI che figurano nel consorzio CEPAV 2 con una quota complessiva prossima al 50 % (ripartita tra Snamprogetti con il 35 % e Saipem con il 12 %) non possono che alimentare l’allarme intorno al progetto della nuova linea ad alta velocità oramai ai nastri di partenza. Ancora una volta, l’evidenza dei fatti rappresenta un dato più che eloquente.
Devastazione dell’ecosistema e dell’economia tradizionale, impennata delle patologie tumorali e drastico accorciamento delle aspettative di vita. Si riassumono in questo modo le condizioni in cui versa oggi l’area africana del Delta del Niger, a fronte di 40 anni di attività estrattiva petrolifera da parte delle grandi multinazionali dell’energia. Per quale motivo in questa regione non vengono applicati i medesimi standard di sicurezza ambientale che vigono ad esempio in Arabia Saudita? La risposta è intuitiva e chiama in causa i costi superiori che tali standard comporterebbero. Secondo Luca Manes, rappresentante della Campagna per la Riforma della Banca Mondiale, «l’estrazione in sé è un attività altamente impattante, ma in questo caso il disastro ambientale è provocato dalle tubature obsolete che portano il greggio dal giacimento agli impianti. Questi tubi passano vicino ai villaggi del Delta, a volta anche dentro; quando si rompono e sommergono le comunità, le obbligano di fatto ad abbandonare la propria terra». Gli effetti più drammatici sono però prodotti dal gas emesso nel corso dell’attività estrattiva, che in Europa viene imbrigliato mediante impiego di tecnologie avanzate e in Nigeria, dove viene invece liberato nell’aria, rappresenta una minaccia gravissima per la salute pubblica e la causa delle piogge acide che distruggono l’economia rurale. Il Gruppo ENI è additato come uno dei principali responsabili del disastro ambientale del Delta e le ultime segnalazioni risalgono proprio a settimana scorsa. “Enivironmental Right Action”, organizzazione ambientalista nigeriana che si batte in difesa delle comunità del Delta, denuncia la fuoriuscita di petrolio da un oleodotto ENI nello stato di Bayelsa e la conseguente contaminazione di campi coltivati, corsi d’acqua e foreste di mangrovia. Si tratta di una tragedia immane per la comunità di Kalaba, ma anche di una violazione spaventosa dei diritti umani: una realtà taciuta in nome degli interessi miliardari connessi all’attività estrattiva del Gruppo ENI.
Attorno alle attività di ENI in Nigeria è emerso un gigantesco caso di corruzione internazionale, in cui sono rimaste coinvolte le stesse società del gruppo facenti parte il consorzio CEPAV 2, ovvero Snamprogetti e Saipem. La prima ha fatto parte dal 1995 al 2000 di un consorzio guidato dalla compagnia texana “Halliburton” che avrebbe impiegato 180 milioni di dollari per corrompere politici e alti funzionari nigeriani (tra cui l’ex dittatore Sani Abacha) con lo scopo di aggiudicarsi l’autorizzazione a costruire impianti di liquefazione di gas. Negli Stati Uniti il processo contro i dirigenti della Halliburton si è concluso nel 2010 con un patteggiamento e il versamento di 579 milioni di dollari, divisi tra il Dipartimento di Giustizia di Washington e la commissione di controllo delle società quotate in borsa; in Italia venivano iscritti nel registro degli indagati il presidente, l’amministratore delegato e tre manager di Snamprogetti, con l’accusa di aver eluso il codice etico di ENI «disponendo la creazione di fondi neri utilizzati allo scopo di pagare provvigioni a intermediari all’estero». Il gruppo è corso al riparo impegnandosi a versare 365 milioni di dollari alle autorità statunitensi, così da evitare l’interdizione dalle gare d’appalto internazionali alla sua società controllata. In Nigeria, a dicembre del 2010, la Commissione per i crimini economici e finanziari autorizzava poi la perquisizione degli edifici della Halliburton a Lagos e, nel corso dell’operazione, veniva arrestato anche Giuseppe Surace, direttore di operazioni di Saipem. Una nuova inchiesta per corruzione internazionale, questa volta relativa alle attività del gruppo in Iraq e Kwait (dove esso opera come stazione appaltante con delega statale), ha chiamato in causa alcuni manager di ENI a giugno del 2011, con l’accusa di aver favorito aziende di costruzioni nell’aggiudicazione di appalti pubblici. L’inchiesta ha condotto all’arresto di 5 dirigenti, tra cui proprio il vice-presidente di Saipem Nerio Capanna, accusati di associazione a delinquere per aver costituito, secondo i pubblici ministeri, un vero e proprio «gruppo affaristico».
L’utilizzo di fondi neri finalizzati al pagamento di mediatori e fornitori esteri, così come al finanziamento illecito dei partiti, era già stato al centro dell’interesse della magistratura nella prima metà degli anni ’90, quando lo scandalo di tangentopoli aveva travolto i vertici di ENI. Lo stesso amministratore delegato del gruppo Paolo Scaroni, accusato di corruzione, patteggiava nel 1996 un anno e quattro mesi di reclusione; al centro della vicenda un giro di tangenti al Partito Socialista Italiano (ai tempi in cui Scaroni era amministratore delegato di Techint) in cambio della concessione di appalti da parte del Gruppo ENEL. Questo prima della completa riabilitazione avvallata nel 2002 dal Governo di Berlusconi, con la nomina di Scaroni, ironia della “sorte”, proprio ad amministratore delegato di ENEL. Se i tempi di tangentopoli sono oramai lontani e prassi e protagonisti di quella stagione sembrano oggi riaffacciarsi in sostanziale continuità con il passato, non sorprende nemmeno che la composizione del consiglio d’amministrazione di ENI confermi lo stretto rapporto intercorrente da sempre tra il sistema politico e i vertici del gruppo. Il valzer delle nomine nelle aziende controllate dal Ministero del Tesoro ha ridefinito lo scorso aprile gli equilibri interni al consiglio d’amministrazione di ENI: il Carroccio ha mantenuto il posto che fu di Dario Fruscio, sostituito dal leghista Paolo Marchioni, e l’area di Alleanza Nazionale interna al Popolo della Libertà può contare ora su Roberto Petri, già capo della segreteria di Ignazio La Russa al Ministero della Difesa. Vi è poi Mario Resca, consigliere dell’ex Ministro dei Beni Culturali Sandro Bondi nell’ultimo Governo di Berlusconi, e Alessandro Profumo, l’ex amministratore delegato di Unicredit che garba a Romano Prodi e vota alle primarie del Partito Democratico, attualmente indagato per la presunta frode fiscale da 245 milioni di euro di cui la Procura di Milano accusa l’istituto di credito.
Il peso della vecchia coalizione di centro-destra nel consiglio d’amministrazione del Gruppo ENI sembra emergere comunque come il dato più significativo, analogamente a quanto già riscontrato per le società pubbliche coinvolte nel progetto BreBeMi. Proprio come nel progetto BreBeMi, inoltre, la prossimità tra quei settori del mondo politico e le società costruttrici, nella fattispecie i gruppi Pizzarotti e Maltauro, costituiscono un fattore acquisito. Si tratta di analogie non proprio rassicuranti, visti gli esiti che queste “alleanze” hanno prodotto nel caso della nuova autostrada. Tuttavia, difficilmente vi saranno modifiche nella tabella di marcia. D’altronde, le grandi opere costituiscono una priorità anche nell’agenda del nuovo Governo, alta velocità in primis. Con riferimento alla tratta tra Treviglio e Brescia, poi, alcune voci maliziose sostengono addirittura che il Ministro dello Sviluppo economico e delle Infrastrutture Corrado Passera rappresenti una benedizione per ENI. Cassa Depositi e Prestiti ha una partecipazione azionaria pari a circa il 26 % sul capitale del gruppo e si è già detto del peso di Intesa-SanPaolo nel consiglio d’amministrazione di questa società pubblica; la stessa partecipazione di Intesa-SanPaolo appare per altro tra le partecipazioni più rilevanti da parte di soggetti privati, con una quota di poco inferiore al 3 %. Che le voci facciano riferimento al vecchio incarico di Passera quale amministratore delegato di Intesa-SanPaolo?