Bergamo – Un altro otto marzo di denuncia e di rivendicazioni: così promette anche a Bergamo il movimento Non una di meno, che insieme ai centri antiviolenza e a diverse associazioni scenderà in piazza di nuovo, per il terzo anno di fila. Stamattina si è tenuta la conferenza stampa di presentazione della giornata, presso la sede dell’associazione Donne per Bergamo, alla presenza di un’attivista di Non una di meno Bergamo e dell’avvocata Federica Tucci, presidente di Fior di Loto, l’associazione di Gazzaniga contro la violenza e il maltrattamento sulle donne.”Non una di meno” è la sigla condivisa sotto cui, anche per il 2019, si è raccolto questo grande movimento internazionale: si afferma che nessuna donna deve più subire la violenza di genere, che nessuna più deve essere maltrattata né uccisa.
La manifestazione bergamasca è stata organizzata da un’assemblea di donne di tutte le età, di Bergamo e provincia, che nelle scorse settimane ha lavorato per promuovere un’iniziativa capace di portare in piazza un grande numero di persone. Il tutto per mettere in campo iniziative sul tema della violenza e dei diritti non solo in quella giornata, ma tutto l’anno.
Nonostante l’assenza di dati certi (dovuti alla mancanza di parametri comuni e di un osservatorio ufficiale), tutte le statistiche sono concordi nel descrivere l’ampiezza del fenomeno: 106 sono le vittime di femminicidio in Italia nei primi dieci mesi del 2018, secondo l’aggiornamento statistico curato da Eures – Ricerche economiche e sociali in vista della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne del 25 novembre 2018; un dato già preoccupante di per sé, ma ancora più inquietante se si considera che è in crescita rispetto all’anno precedente.
Infatti il report del 2017 (l’ultimo disponibile) della Casa delle donne per non subire violenza di Bologna, unico osservatorio nazionale, ne conta 114, più o meno in linea con quanto registrato negli anni precedenti (121 nel 2016, 117 nel 2015, 115 nel 2014, 134 nel 2013, 126 nel 2012 ecc).
Un secondo motivo di preoccupazione è che questi dati si inseriscono in un quadro in cui gli omicidi sono sostanzialmente in calo, mentre restano stabili i femminicidi e la violenza basata sul genere è di gran lunga la prima causa di morte violenta per le donne.
Inoltre, nel 70% dei casi (riferiti al 2017), la nazionalità dell’omicida è italiana e solo nell’11% dei casi la violenza si è compiuta in un luogo pubblico: resta la casa, insomma, il luogo più pericoloso per la donna; in linea con questo, si sottolinea anche che nel 10% dei casi il motivo è la fine della relazione, sempre nel 10% dei casi la gelosia, nel 25% dei generici litigi e nel 9% motivi economici.
In questo panorama, impossibile non pensare anche ai recenti casi che nella nostra provincia hanno riportato prepotentemente all’attenzione pubblica questi temi: oltre all’uccisione di Marisa e Stefania, anche le continue denunce di maltrattamenti e violenza che sono rimbalzate sui media nell’ultimo mese (effetto, si dice, della vicenda di Curno).
A fronte di questo quadro, i centri antiviolenza denunciano la scarsità di fondi statali e soprattutto l’assenza di formazione sul tema della violenza di genere da parte delle figure socio-sanitarie e giuridiche che dovrebbero assistere le donne nel percorso di fuoriuscita dalla violenza: un approccio spesso inadeguato alle donne, che non ne rispetta l’autonomia decisionale e le (legittime) ambivalenze e difficoltà. Al contrario, i centri antiviolenza nati dall’esperienza femminista garantiscono supporto e accompagnamento, senza ledere la libertà di scelta. Ma con la nuova legge regionale, anche l’anonimato potrebbe essere violato: infatti la Regione impone la raccolta di dati sugli accessi ai centri, che però da sempre tutelano l’identità della persona che vi si rivolge.
Non una di meno puntualizza che proprio il tema della violenza ci riporta allo sciopero: l’idea di fondo è che “se le nostre vite non valgono, allora noi scioperiamo”, mostrando come sarebbe il mondo senza le donne; lo sciopero, inoltre, è inteso come astensione dal lavoro stipendiato, ma anche dal lavoro di cura di parenti e figli (cucinare, accudire, pulire…), proprio per evidenziare maggiormente quante mansioni di casa ricadano ancora oggi sulle spalle delle donne.
Le richieste di Non Una di Meno chiamano in causa non soltanto il governo, ma anche le istituzioni locali. La ragione è semplice: il fenomeno della violenza di genere coinvolge tutti i territori, senza distinzione. “In Italia una donna su tre tra i 16 e i 70 anni è stata vittima della violenza di un uomo. Ogni anno vengono uccise circa 200 donne dal marito, dal fidanzato o da un ex. Un milione e 400 mila donne hanno subìto violenza sessuale prima dei 16 anni di età” scrivono le attiviste su facebook. Queste sono le ragioni per cui, secondo il movimento Non Una di Meno, è necessario sostenere i centri antiviolenza e la loro autonomia, con maggiori fondi e possibilità di tutelare la privacy delle donne che vi si rivolgono, differentemente da quanto accade con la nuova legge regionale.
Fondamentale in questo percorso anche l’educazione sessuale ed affettiva nelle scuole: questi percorsi ancora troppo raramente vengono finanziati dalle istituzioni pubbliche, e quando ciò viene fatto sono costantemente sotto attacco con l’ invenzione de “l’ideologia gender”, utilizzata anche a Bergamo per ostacolare la promozione di un’educazione consapevole e libera alle relazioni.
Inoltre le attiviste hanno ricordato la loro battaglia contro il disegno di legge del senatore Pillon, in materia di separazione, divorzio e affido dei minori, per cui il Comune di Bergamo e altri comuni della provincia hanno approvato una mozione, chiedendo al governo di fermarne l’iter parlamentare: “Una legge che ci porta indietro di 50 anni e trasforma le vite degli ex coniugi e dei loro figli/e in un percorso a ostacoli” sottolinea l’avvocata Tucci.
E per chi sta per diventare madre o padre, si chiede “il supporto pubblico necessario” a dar vita alle nuove famiglie: “Come difendiamo la 194 e il diritto alla salute delle donne, allo stesso modo pensiamo che chi voglia avere delle figlie e dei figli, debba farlo in piena libertà, senza che questo comprometta il lavoro di nessuno. Per questo vorremmo che una maternità ma anche una paternità degna per tutte e tutti, indipendentemente dalla loro provenienza, dalla loro identità di genere o dalla loro religione”.
La manifestazione si snoderà per le vie del centro, con partenza alle 18 dalla stazione FS e arrivo in piazza Matteotti, davanti al comune.