Insegnare in quarantena: una riflessione ai tempi del coronavirus

Ecco qui la testimonianza di due insegnanti della bergamasca riguardo il nuovo mondo della didattica a distanza durante la quarantena alla quale ci si deve ottenere causa emergenza Covid-19.

Siamo due insegnanti di Bergamo, una che lavora in città e l’altra in provincia, una in una scuola media e l’altra in una scuola superiore. Da circa un mese, entrambe abbiamo cominciato a lavorare attraverso la didattica a distanza: inizialmente, nelle prime settimane, attraverso drive e registri elettronici abbiamo assegnato del materiale, nella convinzione che saremmo tornate a scuola in breve tempo. Quando tutto è diventato più chiaro e la speranza di tornare in classe per Aprile è diventata un miraggio, abbiamo iniziato a fare lezioni in videochat con le studentesse e gli studenti.

Abbiamo infatti pensato che forse è questo il compito della scuola in questo momento: continuare a essere presenti nelle vite di ragazze e ragazzi, non tanto e non solo per questioni didattiche, ma per cercare di oltrepassare le barriere dell’isolamento fisico in cui ci troviamo, garantendo anche solo per poche ore al giorno la relazione con un gruppo. Così, cerchiamo di dare un sapore di normalità alle vite di queste persone, che in questo momento di normale hanno ben poco. E, a specchio, tutto ciò vale anche per noi insegnanti.
Lo facciamo, insomma, perché riteniamo che questo sia l’unico modo per mostrare la nostra vicinanza ai ragazzi con cui lavoriamo. Ma ciò non significa che non siamo consapevoli del fatto che la didattica a distanza sia un surrogato educativo, con profondi limiti.

Da subito infatti abbiamo notato che lo strumento tecnologico non annulla le differenze tra gli studenti, ma le amplifica: c’è chi abita in zone in cui internet non è veloce come in città, c’è chi non ha un computer e a casa può utilizzare soltanto il telefono con un limite di giga, c’è chi ha dei fratelli e dei genitori in smart working e deve condividere i dispositivi, c’è chi ha una famiglia che non ha le competenze per supportare i figli nell’accesso a questa tecnologia e viene lasciato a sé. Chi ha famiglie più disinteressate ed è di suo più fragile, anche quando a scuola ci si va, non viene aiutato dalla tecnologia. Anzi, nell’interazione mediata da uno schermo è più difficile coinvolgere e non lasciare indietro nessuno, soprattutto coloro che hanno più difficoltà. Chi è più vulnerabile, qualunque sia la ragione di questa vulnerabilità, lo diventa sempre di più: per noi che dovremmo venire incontro a questi bisogni educativi e formativi, tutto è decisamente più complesso. Sarebbe semplice lasciare indietro chi ci rimane, ma non è mai stato questo il compito della scuola. Quindi, per evitare il peggio, mandiamo mail, cerchiamo di entrare in contatto con la famiglia, proviamo nel limite delle nostre possibilità a reperire il maggior numero di informazioni,
per ricostruire un legame che tende a farsi ogni giorno più sfilacciato. C’è poi anche un limite nella qualità dell’interazione: in un periodo in cui molti alunni e alunne hanno situazioni familiari più problematiche del solito (lutti e malattie che a volte si sommano a fragilità già esistenti), risulta più difficile per noi, da dietro uno schermo, offrire un supporto o un conforto e il rapporto ne risente. Adesso prendete tutte queste difficoltà e amplificatele: avrete la situazione che vivono i docenti di sostegno, che lavorano con vulnerabilità di diverso tipo e risentono di tutti questi ostacoli in modo esponenziale.

Inoltre, non dimentichiamo che la scuola per alcuni alunni è uno spazio fisico di espressione e realizzazione personale: andare a scuola è, in alcuni casi, l’opportunità di allontanarsi da una situazione familiare difficile, faticosa e a volte drammatica. Frequentare un luogo in cui c’è la possibilità di relazionarsi ad altri, adulti o meno, è l’occasione per la propria realizzazione personale, soprattutto quando si sta vivendo un periodo di crescita: chiuse le scuole, a chi ha questo tipo di difficoltà questa possibilità viene sottratta.

Per noi docenti l’unico modo per far fronte a questa situazione è non smettere di interrogarci e ricercare un senso nel nostro lavoro, mediante una riflessione condivisa, partendo dal presupposto che comunque questo modo di fare scuola rimane un surrogato e non può che essere temporaneo.

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