Bergamo – La mobilitazione che dal 9 dicembre ha attraversato l’intero paese sembra volta al termine: dopo 2 settimane i riflettori di televisioni e giornali sono ora definitivamente spenti. Di questo movimento sono state dette molte cose, e il dibattito sulla sua composizione e le sue finalità è stato oggetto di interpretazioni divergenti. Il quadro che emerge dalle rappresentazioni mediatiche è noto: si è parlato prevalentemente di “padroncini” (in particolare del settore dei trasporti), commercianti, liberi professionisti, il popolo delle partite IVA. Ma si è parlato anche di una presenza strumentale delle organizzazioni della destra neofascista, enfatizzata con legittima preoccupazione e confermata dalla mobilitazione dello scorso mercoledì a Roma. E poi ci sono le forze dell’ordine, poliziotti e carabinieri che “si sono tolti il casco”: un gesto stigmatizzato da più parti, ma rivendicato entusiasticamente dalle persone che hanno preso parte alla protesta.
La mobilitazione ha raggiunto anche la provincia di Bergamo e quanto segue costituisce un resoconto “a freddo” di quanto accaduto nelle ultime due settimane. Da lunedì 9 dicembre il Coordinamento, attraverso i suoi referenti locali, aveva attivato 3 presidi permanenti a Orio al Serio, Medolago e Treviglio, attuando blocchi del traffico intermittenti presso snodi nevralgici della mobilità su gomma. Quello di Orio al Serio è stato il presidio più partecipato, ma anche il nodo tatticamente più importante. Il presidio, ad oggi ancora attivo, è sorto presso la circonvallazione che dà accesso a uno degli aeroporti più importanti del paese per numero di passeggeri in transito, ma anche ai Comune di Orio al Serio e Grassobbio, centri logistici strategici del territorio. Inoltre quella circonvallazione coincide con uno degli accessi principali alla città: bloccata la circonvallazione la mobilità su gomma è paralizzata. Scontato quindi che, fino dai primi giorni della protesta, la nostra attenzione si sia indirizzata proprio a questo presidio.
Qui il blocco “intermittente” del traffico ha connotato la protesta, anche grazie all’atteggiamento conciliante delle forze dell’ordine. Al presidio, lo spontaneismo caotico ha rappresentato una nota costante: i momenti di confronto collettivo sono stati davvero pochi. Al loro posto i capannelli informali attorno ai falò danno voce alle motivazioni dei singoli. Il primo dato che balza agli occhi smentisce quanto descritto dalla stampa: la grande maggioranza delle persone gravitate attorno al presidio sono operai e operaie, che temono per il loro posto di lavoro, o che l’hanno già perduto. E poi infermiere, diverse guardie giurate, un piccolo numero di studenti e studentesse, persone impiegate nel terzo settore “dequalificato”, artigiani, piccoli commercianti. Si sono fatti vedere anche gli ultras, una categoria trasversale a quelle elencate; non una presenza organizzata, ma i colori dell’Atalanta erano sempre riconoscibili, a colpo d’occhio. I “padroncini” e gli imprenditori sono stati invece una presenza sparuta; di autotrasportatori neanche l’ombra.
Sembrerà strano, ma in alcuni momenti l’impressione era quella di trovarsi di fronte a una sorta di “picchetto operaio”, dove i vissuti personali parlavano di disoccupazione, assenza di prospettive, risentimento verso la “casta”. Quest’ultimo sentimento è stato certamente il più diffuso, eppure le simpatie sono sembrate molto eterogenee: persone che hanno votato per Grillo, spesso orfane di un leghismo sconfitto dalla sua stessa contronarrativa. I fascisti “professi” pochi, ma presenti. In generale, la determinazione unanime a liquidare una classe politica corrotta è sembrata sempre inversamente proporzionale alla chiarezza su “che fare” ad obbiettivo raggiunto. Al contempo, ascoltando le motivazioni dei singoli, una questione emerge con chiarezza: quella del lavoro. Lavoro che manca e paghe troppo magre per campare. E sono diverse le persone che abbiamo sentito parlare di tradimento quando l’argomento scivolava sui sindacati confederali.
Martedì 10 dicembre al presidio si era fatto vivo anche Umberto Gobbi, leader del Movimento Autonomo Trasportatori. Gobbi è un imprenditore, e le invettive ci sono sembrate coerenti alla sua “estrazione”. Le tasse, di cui fino a quel momento si era sentito parlare poco. Troppo alte, soffocano la concorrenza, dissanguano gli imprenditori italiani onesti. E poi le accise sul gasolio, e l’IVA. E se i profitti crollano, come si fa a pagare i dipendenti? Così Gobbi trovava la quadra: «con meno tasse io stesso potrei assumere, potrei alzare gli stipendi fino a 3.000 euro al mese». Qualcuno aveva anche chiesto quali soluzioni immaginasse per sanità e istruzione, ad esempio. La risposta è stata lapidaria: «se l’economia torna a girare, i soldi non mancheranno». Può apparire paradossale, ma le sue parole sono state accolte con entusiasmo. In mancanza di altre voci, ancora un volta, è l’imprenditore a indicare la strada alla classe operaia: l’impresa come fonte di benessere collettivo, la concorrenza come strumento redistributivo. Ancora una volta, perché le parole di Gobbi appaiono così assonanti all’immagine berlusconiana del “presidente operaio”.
Alcune voci si levavano a quel punto dal comizio improvvisato: «si va o non si va a Roma?». Gobbi su questo era stato irremovibile: a Roma secondo lui sarebbe dovuta andare una delegazione, al tavolo con il Governo. La cosa ci aveva lasciato allora con qualche perplessità; nel clima caotico non era chiaro da chi e come questa delegazione sarebbe stata composta. E ancora, a cosa occorre un tavolo se l’obiettivo è liquidare il Governo? Già in quei primi giorni, comunque, l’impressione era quella di trovarsi di fronte a un quadro difficilmente riducibile a facili schematizzazioni, un quadro complicato. Un’impressione alimentata dalle parole di Gobbi, ma anche dall’avvicinamento in punta di piedi di figure chiaramente collocate politicamente, a destra. A complicare ulteriormente il quadro vi è poi la composizione sociale che ha caratterizzato questa sorta di “picchetto operaio”, così distante dall’immagine “romantica” della classe operaia. Insomma, un contesto fluido e spurio, denso di contraddizioni; ma, indubitabilmente, anche uno spaccato del paese reale che fa i conti quotidianamente con il morso della crisi.
Il magma caotico che ha segnato la mobilitazione è ora placato, ma l’impressione è che il profondo disagio che ne è stato motore non sembri destinato alla dissoluzione. Tanto più che in quel presidio sono andate avvicendandosi alcune centinaia di persone; per Bergamo, numeri tutt’altro che risibili. I sindacati autotrasportatori hanno inteso avvantaggiarsi della mobilitazione per indirizzare al governo rivendicazioni di categoria. La fila di partiti e movimenti che hanno provato a mettere il cappello sulla protesta è lunga e variegata. Anche i militanti di Casa Pound hanno messo un piede nel movimento, e hanno fatto il proprio gioco. Ma la maggior parte delle persone che hanno attraversato quel presidio esprime uno spontaneismo mosso da esasperazione vera, che non ha trovato spazio di emersione altrove. A Bergamo, per altro, la prevalente componente operaia ci dice anche qualcosa a proposito della natura di quella esasperazione; una informazione che stride con la rappresentazione mediatica prevalente.
Nel presidio gli effetti devastanti del neoliberismo erano palpabili. Si percepivano il senso di solitudine, la frantumazione generata dalle trasformazioni del sistema economico. La sensazione è che buona parte delle persone siano approdate là in cerca di un antidoto. Solo pochi decenni fa si sarebbe detto che a mancare è la classe. Ora la complessità è tale da disorientare anche il più abile degli osservatori. Con ironia verrebbe da dire che non si sa più a che santo votarsi. In mancanza di santi e di eroi, comunque, c’è sempre un Gobbi di turno, o un Calvani (per usare una prospettiva più ampia), a parlare alla pancia del popolo. In questo quadro misuriamo l’irrapresentabilità e lo smarrimento di settori non secondari della società italiana (e non parliamo di “padroncini”). Misuriamo il fallimento dei sindacati confederali, ma anche l’assenza della cosiddetta “sinistra”. Già, perché i problemi degli operai e delle operaie e delle tante persone disoccupate che hanno dato vita al presidio sono le stesse che abbiamo rilevato in altri contesti a cui nel tempo abbiamo fornito visibilità: dai picchetti fuori dalle fabbriche alle mobilitazioni anti-sfratto.
Ora, a distanza di 2 settimane, possiamo dire che la presenza di “quelli di sinistra” è stata pressoché irrilevante. Alcuni elementi ci dicono che tale presenza sia stata persino temuta; non da coloro che attraversano spontaneamente la protesta, ma da chi vi ha colto uno spazio di intervento politico e vi si è mosso strumentalmente. Venerdì 13 dicembre, nei pressi del presidio, era circolata la voce che fossero stati distribuiti volantini di minacce siglati con il nome “Pacì Paciana” e il simbolo anarchico della “A” cerchiata. Un fatto strano, perché il centro sociale cittadino non ha orientamenti anarchici e non ha mai fatto ricorso a tale simbologia in 20 anni di storia. Alle provocazioni hanno fatto seguito le intimidazioni ai singoli da parte di alcuni neofascisti, ma anche le pressioni della polizia affinché il presidio isolasse “quelli dei centri sociali”. Un tentativo di polarizzare la protesta e alimentare contrapposizioni artificiose che nel contesto locale è sembrato fare gioco soprattutto alla destra neofascista, e in particolare a Casa Pound.
A questo proposito, ci sembra degno di nota il riferimento a un episodio risalente sempre alla giornata di venerdì 13, quando il Coordinamento ha tenuto un presidio di protesta presso il piazzale della stazione di Bergamo (per altro con numeri ben al di sotto delle aspettative). In quel caso, il tentativo di coinvolgere la componente studentesca, cavalcato da Casa Pound, ha condotto a un esito del tutto imprevisto. Decine di studenti e studentesse hanno effettivamente raggiunto il piazzale; anziché prendere parte alla mobilitazione vi hanno sollecitato il confronto assembleare. Qui, di fronte ad un centinaio di persone, veniva posta con forza la discriminante antifascista e denunciata l’infiltrazione di Casa Pound nella mobilitazione. Ciò senza “atti di forza”, ma con l’intelligenza di leggere le ambivalenze, e di imporre una prospettiva capace di guardare aldilà dell’auspicata cacciata del governo. Senza paura di sporcarsi le mani, dunque, ma con la chiarezza necessaria a contaminare senza correre il rischio di farsi fagocitare dagli eventi.
Come osservato più volte dalla nostra redazione, questo movimento di studenti e studentesse non ha appartenenza partitica o sindacale e, come dimostrato venerdì scorso, non esita a definirsi “antifascista”. Come emerso nel corso di quella assemblea, poi, le sue componenti migranti non si identificano nella categoria di “italiani”: la contraddizione, anche in questo caso, è tutta dei “forconi”. Eppure, si direbbe che, se quegli studenti e quelle studentesse non ci fossero stati, queste contraddizioni sarebbero rimaste latenti; allora forse davvero Casa Pound avrebbe avuto campo aperto nelle scuole. E invece c’erano, prima di tutto dentro le scuole, nel quotidiano. E c’erano quella mattina: fuori dalle scuole e poi nel piazzale della stazione, a imporre uno spazio di confronto assembleare. Ed è in quello spazio di confronto pubblico che sembra ravvisarsi l’antidoto alla frantumazione sociale, alla solitudine, allo smarrimento degli “irrappresentabili”. Là vive lo “spazio pubblico”, lo spazio delle contraddizioni e delle tensioni, lo spazio delle convivenze difficili, ma anche lo spazio del sociale e dell’iniziativa politica.
Gli sviluppi che hanno trasformato il presidio di Orio al Serio nel corso della scorsa settimana, riflettendo quanto avvenuto a Roma mercoledì, riecheggiano la frattura determinata dagli studenti e dalle studentesse. L’affievolirsi della partecipazione al presidio si è accompagnata al crescendo della presenza neofascista, Casa Pound in testa. L’impressione è che non sia stata una metamorfosi indolore: diverse persone, sentito odore di bruciato, hanno abbandonato la mobilitazione. Un esito del tutto analogo a quanto avvenuto nel presidio di piazzale Loreto a Milano, dove Forza Nuova ha letteralmente preso controllo della protesta (a scapito delle componenti spontanee della stessa e con il passivo beneplacito delle forze dell’ordine). Già nel corso dell’assemblea improvvisata nel piazzale della stazione la discriminante posta da studenti e studentesse aveva aperto un dibattito non univoco tra le fila dei “forconi”. Il quadro appariva ancora una volta ben più complesso di quello offerto dalle rappresentazioni mediatiche: uno scarto confermato, in un certo qual modo, anche dai richiami insistenti del movimento alla Costituzione.
Nella dialettica degli studenti e delle studentesse ci è parso di rintracciare gli anticorpi per difendersi dai tanti Gobbi, dai tanti Calvani, dalle tante Case Pound, dai tanti incantatori di serpenti che suonano il flauto nel deserto del reale. Gli incantatori di serpenti che suonano per la pancia del popolo, ma ne biasimano la testa; che sono nemici dello spazio pubblico, perché il confronto delle idee è l’anticamera della liberazione; che addomesticano, non sollecitano coscienza e consapevolezza; che necessitano dell’ordine e del campo sgombro, anche quando servono il caos. Ecco, quello che emerge è che bisogna guardarsi dagli incantatori di serpenti, non dal popolo. E gli studenti e le studentesse, Venerdì 13, in quell’assemblea improvvisata, è sembrato che muovessero proprio in quella direzione, disinnescando le ambizioni degli incantatori di serpenti certo, ma anche cercando il confronto, fissando un minimo comune denominatore. Perché nel deserto del reale si agitano i risentimenti dei “padroncini” e le manovre dei più abili prestigiatori, ma anche l’esasperazione dello studente e della studentessa, delle tante persone senza casa, senza lavoro e senza pensione, dell’operaio e dell’operaia. Perché nel deserto del reale il metalmeccanico vota Lega Nord, e la commessa non è immune alle favole luccicanti del berlusconismo. Piaccia o non piaccia, questo è il campo di intervento: le prospettive di un cambiamento possibile non possono prescindere da questa consapevolezza.