Pubblichiamo questa lettera ricevuta da una maestra che lavora presso una scuola primaria in provincia di Bergamo: una testimonianza che racconta le difficoltà del mondo della scuola.
Bergamo – Dalle vacanze di carnevale, ormai, sembra passata un’eternità. Quello che sembrava non toccarci da vicino si è improvvisamente materializzato nella nostra città, invadendola, così velocemente che mi è sembrato un battito di ciglia. L’Italia è diventata zona rossa e il premier Giuseppe Conte ci chiede di fermare tutte le attività sociali, lavorative, educative che non possono essere svolte dentro le mura domestiche, poiché questa emergenza sanitaria si risolverà solo con il distanziamento sociale e quindi a tutta la popolazione è chiesto di restare a casa.
Le scuole, le università i musei, i cinema, le biblioteche sono stati i primi enti a chiudere sul nostro territorio, lasciando smarriti molti lavoratori ma anche gli utenti, spesso bambini. Noi adulti ci abbiamo messo qualche giorno, ma poi abbiamo capito, dovevamo correre ai ripari digitalizzando e virtualizzando più velocemente possibile il nostro lavoro. Le biblioteche hanno iniziato a creare video dove venivano letti ad alta voce libri per adulti e bambini. I musei hanno creato gallerie virtuali sui loro siti internet e i cinema pubblicano articoli dove consigliano film open source che si possono trovare nel web. Addirittura radio Rai continua a proporre nelle sue piattaforme libri letti ad alta voce. Ho quasi l’impressione che una volta paralizzato il sistema economico capitalistico, bulimico per sua natura, in cui siamo costretti a vivere, la cultura abbia potuto respirare aria fresca, nuovamente.
Quello che doveva essere un sistema economico è talmente radicalizzato dentro di noi fino a diventare un sistema di vita capitalistico: velocità, carrierismo, arrivismo, individualismo, accumulo compulsivo. Così viviamo: dando precedenza alla produzione piuttosto che all’individuo. Guadagnamo per spendere senza poterci godere quello che abbiamo, perché solo così il sistema può andare avanti.
Ma nel momentaneo silenzio, come una primula a primavera, la cultura, in tutte le sue sfaccettature (e innovazioni) è riuscita a far sentire di nuovo la sua voce.
Non passa giorno in cui non leggo un articolo che mi consiglia di visitare i 10 musei più belli del mondo dalla mia poltrona di casa, o che mia mamma mi mandi il link dell’audio libro di A. Camus “ La peste” (si, mia mamma è un po’ cinica), o che finalmente finisco i tre libri che ho iniziato a dicembre e che stanno prendendo polvere sul comodino della camera.
Ma perché questo può succedere? perché questo virus, ci ha fatto certamente molti torti, ma anche un piccolo regalo. Ci ha restituito del tempo, del tempo prezioso che mai nessuno poteva permettersi. Tempo per fermarsi, tempo per interessarsi (si perché di cultura ci si occupa solo a tempo perso.) tempo per informarci, tempo per ragionare, tempo per telefonare e confrontarci, tempo per solidarizzare (si, la cultura produce anche questo: solidarietà).
E il tempo della scuola? il tempo trascorso insieme alunni insegnanti, il tempo dell’apprendimento, il tempo della condivisione, il tempo dei compiti… La scuola occupa moltissimo tempo e ha bisogno di molto tempo perché sia una scuola efficace. La scuola non può avere fretta (anche se le insegnanti ne hanno sempre), la scuola aspetta tutti i bambini e rispetta i loro tempi e il loro tempo. A scuola si condivide moltissimo tempo. E come si fa a trasferire tutto questo tempo, che insegnanti e alunni si dedicano quotidianamente, online?
Da un lato c’è la questione della digitalizzazione e virtualizzazione della scuola: supporti tecnologici, competenze da acquisire, sistemi radicati da sovvertire. Questi sono solo alcuni degli ostacoli che la scuola ha incontrato per avvicinarci alla prima delle “I” dello slogan (Internet, Inglese, Impresa) con cui il Ministro Moratti aveva voluto sintetizzare il suo programma di riforma della scuola.
Dall’altra parte dello schermo poi, ci sono le famiglie con le personali difficoltà di ognuno: economiche, tecniche….
Sì, perché se il sistema Internet è un sistema profondamente democratico, i supporti per l’utilizzo di questo sono l’esatto contrario. Il sistema del libero mercato, porta la tecnologia a evolversi in modo veloce ma disomogeneo rendendola spesso inaccessibile per colpa dei costi elevati. Detto in parole semplici, un insegnante che deve lavorare online non può avere la certezza che le famiglie dei suoi alunni (utenti) siano in possesso di supporti tecnologici adeguati, questo perchè i supporti sono a carico delle famiglie e spesso i device hanno costi elevati. Come fa quindi la scuola a essere inclusiva? Nel senso di “ promuovere il diritto di ogni alunno di essere considerato uguale agli altri e diverso insieme agli altri” se i supporti tecnologici con cui ci relazioniamo non lo sono? come fa la scuola ad applicare una didattica inclusiva se prima non si è assicurata di raggiungere tutti suoi alunni?
Ma la scuola italiana ci ha provato comunque, ha corso più veloce che mai per essere attiva online nel più breve tempo possibile, per zittire il “gruppo mamme” di whatsapp che dopo aver sentito il ministro sollecitare lo smart-working chiede a gran voce di attivare le video-lezioni per i bambini di tutte le età.
Cosi la scuola ha corso, ha lasciato indietro le colleghe meno tecnologiche che faticano ad essere efficaci telematicamente, ha lasciato indietro gli alunni senza computer o tablet, ma alla fine ce l’ha fatta: è online!
E cosa fa la maestra quelle poche ore online (esiste un regolamento che stabilisce quanto sia possibile stare davanti a uno schermo)? Innanzitutto la maestra è più entusiasta di tutti gli alunni messi insieme di vedere e sentire quelle vocine felici di rincontrarsi seppur distanti.
Mi ha fatto molto riflettere questa distanza, i miei alunni mi mancano molto: mi manca vederli ridere, scherzare, relazionarsi, mi manca vederli ragionare, crescere, intervenire a sproposito, mi manca profondamente vederli ragionare e interagire con loro: Perché non c’è scuola senza interazione. Non si impara da soli. Quindi il primo step online è stato quello di ripermettere loro di creare nuovamente questa magia: lasciarli parlare, mostrando il mio interesse nei loro confronti, dando degli spunti di riflessione.
Abbiamo riflettuto molto sui cambiamenti climatici in classe, nei mesi precedenti, per cui ho ritenuto interessante mostrare ai miei alunni un articolo che parla della regressione della colonnina dell’inquinamento durante questo mese di quarantena, qui e in Cina. Ho mostrato loro video di animali che si riprendono i loro spazi grazie a questo esperimento non voluto e improvvisamente i 50 minuti di lezione sono diventati pochissimi perché nelle loro voci potevo vedere l’interesse e la passione di crescere, ne è nato un dibattito, delle riflessioni e per un attimo mi è sembrato di vederli tutti come in classe quando la discussione si infiamma e ognuno voglio dire la sua.Purtroppo però a distanza è tutto molto più complicato, la relazione che si crea a scuola è una relazione fatta di sguardi, di contatti, di sorrisi o di facce serie che purtroppo online, con o senza telecamera, non esistono. Non esistono perché quando parlo mi rivolgo ad uno schermo. Quello che i bambini stanno facendo con le videolezioni non è scuola con la S maiuscola ma “solo” sviluppo di competenze tecnologiche.
La Scuola deve essere in presenza, perché deve essere condivisione dell’esperienza, deve essere un esperimento fatto insieme, alunni e insegnanti, dove ognuno mette i propri ingredienti ed dove è impossibile stabilire a priori il risultato che si otterrà.
La Scuola deve essere in presenza perché la scuola è pratica, non esiste conoscenza senza esperienza di vita vissuta in prima persona.
La scuola deve essere in presenza perché solo con il maggior numero di confronti con l’altro nelle diverse situazioni posso sviluppare il mio senso critico.
La Scuola deve essere in presenza perché non c’è modo migliore per crescere che farlo tutti insieme.