Bergamo – La storia che ci racconta Alvaro comincia due anni fa, il primo ottobre del 2010, quando inizia a consegnare L’Eco di Bergamo agli abbonati. Alvaro, lavoratore di origini boliviane, usa la propria moto, la carica di giornali che ritira presso la sede della DIF S.p.A. di Orio al Serio alle tre e mezza di mattina e poi parte per raggiungere i 400 abbonati della Valle Brembana e finisce di lavorare verso mezzogiorno (condizioni climatiche permettendo).
Lavora in nero, nessuno gli paga i contributi fino a quando cade in moto e si infortuna. A questo punto viene regolarizzato solo parzialmente. Viene assunto part-time della cooperativa “Door to door fast delivery”, ma continua a lavorare molte più ore di quelle dichiarate. Prende uno stipendio di circa 600 euro, mentre il resto delle ore in nero gli vengono pagate in contanti.
Nell’intervista Alvaro racconta l’incidente stradale a San Giovanno Bianco e dice che “con la pelle della gente non si gioca“. Il versamento dei contributi permette a Alvaro di rinnovare il permesso di soggiorno, altrimenti pur avendo un impiego rischierebbe di entare in quel limbo chiamato clandestinità.
Il 2 agosto di quest’anno Alvaro , dopo l’ennesimo infortunio, è stato licenziato. Si è quindi affidato all’assistenza dell’Ufficio vertenze della CGIL per vedere finalmente riconosciuti i propri diritti, troppo a lungo calpestati. Alvaro è una delle tante persone che contribuisce al successo di uno dei quotidiani locali più venduti in Italia: L’Eco di Bergamo.
Ma ancora una volta viene a galla come dietro il successo di alcune grandi aziende, molto attente a tutelare e difendere la propria immagine, si nascondano condizioni di lavoro disumane e la negazione dei diritti anche più elementari. Il meccanismo per scaricare ogni tipo di responsabilità è sempre lo stesso: una serie di appalti e subappalti di aziende intermedie, che solitamente terminano con cooperative o S.r.l. che trovano terreno fertile per sfruttare i dipendenti nella maniera più intensa possibile, senza nemmeno considerare che è la salute stessa dei lavoratori a essere messa a repentaglio.
Il tutto permette comodamente all’azienda capofila di fingere di non conoscere le condizioni di lavoro delle ditte a cui ha appaltato o subappaltato.
Condizioni di precarietà non mancano peraltro neanche all’interno dell’ampia schiera di giornalisti che lavorano per L’Eco di Bergamo, ma avere direttamente la responsabilità di assumere in nero senza garantire le tutele minime lavorative, comprometterebbe irrimediabilmente l’immagine del giornale “bianco” della città.