Lettera sul lavoro in carcere scritta da un detenuto bergamasco:
“Sul lavoro in carcere
Trattare l’argomento “lavoro” dalla cella di un carcere potrebbe essere da qualcuno considerata intenzione alquanto anomala, forse ingombrante o sfacciata.
Eppure so che la libertà ed il lavoro sono due valori essenziali indiscutibilmente uniti e lo sono anche se “osservati” da qua, dal dentro le mura di una prigione giacché qualsiasi percorso inclusivo che desideri ed auspichi (ricordiamoci dell’art. 27 della Carta costituzionale) l’affermazione od il ripristino di una cittadinanza fattiva e partecipata non può che passare attraverso la tutela dei diritti umani e civili tra i quali compare sicuramente il diritto al lavoro, diritto che conduce alla costruzione di un’autonomia personale, allo svincolamento dell’aiuto che la famiglia (nel suo significato laico più esteso) garantisce o vorrebbe garantire ai propri membri, innanzitutto ai giovani.
Una delle cose che più m ha colpito in questi ultimi (!) anni è la considerazione fatta da tante/i lavoratrici, lavoratori, pensionate/i allorché hanno riconosciuto che le difficoltà affrontate nella loro vita, sul luogo di lavoro e non solo, sono poca cosa rispetto alla grande incertezza che devono combattere i figli, i loro ed i nostri figli.
Mio padre e mia madre, operai, hanno vissuto con la speranza, e pure con una tenace consapevolezza, di poter vedere noi figli raggiungere un obiettivo certo, un lavoro sicuro in grado di offrire stabilità, serenità familiare e sociale, il tutto grazie ai loro generosi sacrifici e ad uno “Stato sociale” parzialmente amico.
Noi, attuali cinquantenni (o giù di lì), cresciuti nel boom economico degli anni ’60 (sul quale potremmo comunque riflettere a lungo), più che spettatori dello sconvolgimento prodotto dal passaggio dalla fabbrica al terziario, oggi facciamo i conti con l’esito dell’illusione “offertaci” dall’economia virtuale, dall’implosione del mercato, dalla profonda crisi del “sistema politica”.
Le difficoltà maggiori le stanno però vivendo, e temo le vivranno a lungo, i giovani, le nostre figlie, i nostri figli alle/i quali nulla è garantito, tanto meno la certezza di quel lavoro di cui la nostra Costituzione nata dalla Resistenza si fa garante (a partire dall’art. 1 – passando poi per tutto il Titolo III) e di cui la Legge tutela il diritto allo sciopero e la libertà e dignità del lavoratore (L. 20 maggio 1970 n. 300).
Tutto ciò è tristemente paradossale perché nessuno vorrebbe che il futuro che si prospetta ai nostri “eredi” fosse peggiore del tempo da noi vissuto!
Ci ritroviamo in un mondo ridotto, come qualcuno ha fatto notare, alla forma supermercato e questa constatazione (innegabile) mi ha fatto ripensare ad un articolo pubblicato su “Il Manifesto” lo scorso 22 maggio. In quello ho trovato la descrizione fatta di Sarajevo da Nenad Velickovic, scrittore che ha messo al centro delle sue opere una città snaturata non solo dalle distruzioni belliche ma anche dai cartelloni pubblicitari ed infatti egli scrive: «Vorrei vedere ciò che avevo un tempo e devo guardare ciò che non avrò mai». Fatte le dovute e rispettose differenze, credo si possa dire che i nostri ragazzi, ai quali la visione delle “macerie” non manca, si trovano in una situazione assai difficile, piena di incertezze.
Quali opportunità sono loro offerte? Quale spazio trovano le loro capacità, le loro aspettative?
Se le risposte le devono dare, per fare un esempio, le Agenzie per il lavoro interinale permettetemi di esprimere la mia grande preoccupazione e di dubitare della lealtà etica di quel “progetto” di sviluppo.
Perché scrivo tutto questo: non sono uno specialista, non possiedo alcuna verità tuttavia mi chiedo quale reale cittadinanza è garantita!
Osservo da un “non-luogo” in cui il lavoro è come una debolissima ombra che compare e scompare tuttavia aspiro a possedere almeno un po’ la forza di una “antenna” capace di ricevere, comprendere e pure trasmettere, sviluppare riflessioni, idee.
È una “proiettività” in cui credo poiché parla di responsabilità, doveri, prerogative, intenti e, sicuramente (lo posso garantire!), sogni, speranze.
Se qualcuno mi volesse sottoporre la domanda «Ci sarà tempo di chiedersi ‘ Avrò il coraggio?’», magari per sapere se una volta uscito dal carcere sarò disponibile a lavorare, la risposta non potrà che essere affermativa poiché il “lavoro” è richiesta che ho sempre fatto, è cosa che apparteneva alla mia vita libera, per il diritto al lavoro ho lottato, dal lavoro dei miei genitori sono stato educato, grazie al lavoro della mia compagna, ed ora anche grazie a quello precario di mia figlia (e ciò è imbarazzante poiché si ribaltano i ruoli ed i compiti naturali!), sono sopravvissuto in tutti questi anni di carcere.
“Abitare nella società”, una società fondata sul diritto ad un lavoro non alienante e sul rispetto del tempo libero, è il desiderio del ritorno, è il desiderio di una vita familiare e sociale.
È per tale ragione che credo necessario e corretto porre all’attenzione della società civile il tema del “lavoro in carcere” e nel farlo esprimo il mio rispetto e la mia solidarietà a tutte quelle donne e quegli uomini che, lì fuori, vedono attaccato il proprio posto di lavoro, perciò la loro dignità, l’esistenza stessa.
Alla società tutta vorrei chiedere di ascoltare e leggere quanto da qua giunge, ancor più se descrive una situazione in cui un serio percorso inclusivo di cittadinanza è comunque sempre messo in discussione, spesso nemmeno avviato, salvo rarissimi casi.
Il lavoro è elemento da cui non si può prescindere ma, purtroppo, non è valore garantito eppure è materia fondamentale allo sviluppo della vita, è necessaria al potenziamento delle relazioni con gli altri uomini e, nello specifico “penitenziario”, al rafforzamento (peraltro lungimirante) dei percorsi reintegrativi nella società di chi è oggi “escluso” dalla vita sociale (non voglio qua dilungarmi sulle cause che determinano la detenzione essendo queste molteplici tuttavia, essendo io un cocciuto sostenitore del diritto alla difesa e del ruolo “terzo” dello Stato, riaffermo il bisogno di una “nuova capacità praticante” del Diritto agile nell’escludere il pregiudizio!).
Da una parte si dovrebbero incentivare le proposte lavorative così da facilitare il trattamento (intramurale ed extramurale) e l’ammissione alle pene alternative. In tal modo si abbatterebbe sensibilmente la recidività (fattore che lo stesso Ministero e le Associazioni che si occupano dei diritti umani riconoscono stabilizzarsi su livelli minimi, potremmo dire endemici, allorché gli Uffici di Sorveglianza sostengono i benefici penitenziari) e si risponderebbe anche alla domanda di “sicurezza” che giunge dalla comunità.
Dall’altra, all’interno degli istituti penitenziari, si dovrebbero tutelare maggiormente i lavoratori-detenuti, sia sul terreno delle mercedi sia su quello dei tempi e delle modalità di lavoro.
La stessa Corte Costituzionale è più volte intervenuta al riguardo e penso sia giusto ricordare tali decisioni:
- a) Sentenza 13 dicembre 1988 n. 1087: «le finalità da raggiungere con il lavoro sono la redenzione ed il riadattamento del detenuto alla vita sociale; l’acquisto e lo sviluppo dell’abitudine al lavoro e della qualificazione professionale che valgono ad agevolare il reinserimento nella vita sociale. Dette finalità sono assolutamente prevalenti (…). Peraltro una remunerazione di gran lunga inferiore sarebbe certamente diseducativa e controproducente (…). Vero è che è stabilito un trattamento minimo non inferiore ai due terzi del salario previsto da questi ultimi, ma trattasi solo di una determinazione nel minimo, mentre non può escludersi l’osservanza del criterio della relazione con la quantità e qualità del lavoro prestato e nemmeno possono trascurarsi, secondo il precetto costituzionale, i bisogni della famiglia di chi lavora».
- b) Sentenza 22 maggio 2001 n. 158: «il diritto al riposo annuale integra appunto una di quelle ‘posizioni soggettive che non possono essere in nessun modo negate a chi presti attività lavorativa in stato di detenzione. (…) Qualunque lavoratore ha diritto anche alle ‘ferie annuali retribuite e non può rinunziarvi (…). Il ruolo assegnato al lavoro nell’ambito di una connotazione non più esclusivamente afflittiva della pena comporta che, ove si configuri un rapporto di lavoro subordinato, questo assuma distinta evidenza dando luogo ai correlativi diritti ed obblighi. D’altro lato, la garanzia del riposo annuale – imposta in ogni rapporto di lavoro subordinato, per esplicita volontà del Costituente – non consente deroghe e va perciò assicurata ‘ad ogni lavoratore senza distinzione di sorta ’ (…) ».
- c) Sentenza 27 ottobre 2006 n. 341: i giudici hanno stabilito che sul lavoro in carcere è competente il giudice del lavoro, questo per annullare qualsiasi «irrazionale ingiustificata discriminazione» con riguardo ai diritti inerenti alle prestazioni lavorative tra i detenuti e gli altri cittadini (vedasi sentenza n. 49/1992).
Tali decisioni sono, a mio parere, elemento importantissimo che può sostenere, insieme a tanto altro, la specularità carcere/società.
Sono deliberazioni che non lasciano margine ad interpretazioni stravaganti o pregiudiziali; esse stesse nascono da quei principi fondanti la nostra Costituzione e, mi piace pensarlo, quello Statuto dei Lavoratori a cui troppo spesso non si dedica il rispetto che meriterebbe, anzi che merita!
Non mi sento a disagio nell’esporre questi pensieri poiché ritengo non ci si debba lasciar frenare dall’imbarazzo né si debba accettare la tesi secondo cui le gravissime difficoltà che stanno affrontando i lavoratori “liberi” non concedono spazio alla discussione di “vertenze” particolari né lasciano spazio ad un “Tavolo” disponibile all’accoglimento di più contributi, di voci “altre”, comprese quelle prigioniere.
Penso si debba puntare proprio sullo sviluppo e sulla diffusione di progetti accomunanti che, senza eludere le differenze ed il diverso “status”, prendano innanzitutto in considerazione la vitale necessità di procedere verso esperienze di lavoro e di confronto tra il “dentro” ed il “fuori” (lo stesso penso necessario tra il fuori “conosciuto” ed il fuori “altro”) poiché la separazione preannuncia comunque il contrasto, il respingimento, l’estromissione diffidente e, pure, l’ossessione di logiche identitarie (quelle “securitarie” e quelle “coatte” sono entrambe un grande problema!), tutti fattori che ostacolano il nascere di quelle relazioni che “attraversando” i muri delle categorie creano trasformazioni e qualificano, desiderandolo tenacemente, il “noi”, noi comunità.
Fabio Canavesi
Carcere di Bergamo”