Bergamo – L’appuntamento, come da tradizione, era per questa mattina alle 9.30 al piazzale della stazione, ma la manifestazione del Primo Maggio ha preso avvio solo un’ora più tardi. Complice una presenza di piazza decisamente inferiore agli anni passati, almeno per quanto riguarda le sigle confederali. Questo è forse il primo elemento evidente di questa giornata, un dato che in qualche modo misura l’umore del mondo del lavoro: semplicistico attribuire alla pigrizia il calo della partecipazione, su cui grava invece una crisi della rappresentanza profonda e palpabile. Tanto più che proprio quando il Parlamento discute il Jobs Act del Governo Renzi, il silenzio di CGIL, CISL e UIL sembri pesare come un macigno. Appare allora quasi consequenziale che proprio mentre i sindacati confederali faticano a mobilitare i propri iscritti per la giornata della Festa del Lavoro, i soggetti che negli ultimi mesi hanno dettato l’agenda delle lotte nel contesto provinciale non solo crescano in termini di presenza, ma assumano l’iniziativa pubblica con vigore.
È successo oggi in diverse città italiane, ed è successo a Bergamo. Si tratta dell’onda lunga delle manifestazioni del 19 ottobre e del 12 aprile a Roma. Quell’unità delle lotte reali che nell’ultimo anno ha mobilitato una molteplicità di soggetti in tutto il paese, affermando la centralità di parole d’ordine come reddito e casa; la centralità di istanze di dignità che non trovano riscontro nelle forme sedimentate della rappresentanza ma che rivelano una determinazione crescente ad opporsi al processo di impoverimento generale che le politiche di austerity impongono a strati non secondari della società. Ecco allora che lo spezzone sociale dei movimenti di lotta per la casa e del sindacalismo di base finalmente unito si è affermato oggi come lo spazio più partecipato della manifestazione: uno spezzone meticcio e intergenerazionale, animato da famiglie senza casa, facchini della logistica, precari e precarie, lavoratori e lavoratrici che in tutta la provincia lottano quotidianamente per difendere il proprio posto di lavoro, senza deleghe.
A questa composizione emergente è da attribuire il colpo di scena finale della giornata: una fotografia che restituisce gli estremi della sollevazione a venire. Giunti in piazza Vittorio Veneto per il consueto comizio istituzionale, i vertici di CGIL, CISL e UIL e i rappresentanti del Partito Democratico hanno misurato l’umore del paese reale, l’umore di coloro che degli effetti della crisi e delle misure introdotte dai vari governi tecnici hanno esperienza diretta sulla propria pelle, giorno per giorno. Le parole d’ordine dello spezzone sociale si sono fatte così contestazione: dall’accordo sulla rappresentanza del 10 gennaio, destinato a silenziare ogni forma di conflittualità sindacale e a perimetrare rigidamente l’iniziativa dei rappresentanti espressi dai lavoratori e dalle lavoratrici, al Jobs Act, ulteriore scatto in avanti nel processo di precarizzazione occupazionale. Il comizio, subissato dai fischi, si è concluso anzitempo e dopo pochi minuti i convenuti hanno abbandonato il palco precipitosamente. A poco è servita la musica profusa dagli altoparlanti per silenziare la contestazione: in pochi attimi la protesta ha preso controllo del palco.
La fuga dei sindacati confederali da quel palco ha aperto uno spazio del tutto inedito alle testimonianze di lavoratori e lavoratrici migranti, famiglie senza casa e sindacalisti di base. Il comizio stanco dei dirigenti confederali e dei professionisti della politica rimpiazzato dalle voci delle lotte reali. Allora quel coro unanime “vergogna” scandito durante la contestazione non è parso poi così paradossale. Come dire: andate sui posti di lavoro, tastate con mano quali condizioni sperimenta oggi chi lavora per una cooperativa della logistica o per un call center, chi sperimenta l’incertezza di contratti da forza lavoro “usa e getta”, tastate con mano la precarietà esistenziale di chi fa i salti mortali per pagare l’affitto. La presa di quel palco ci dice qualcosa sul paese reale, che non può e non vuole aspettare, che pretende diritti e dignità e che per questi è disposto a battersi.