Bergamo – Proseguono le mobilitazioni dei lavoratori e lavoratrici della Telecom, che in tutta Italia sono impegnati a difendere il proprio posto di lavoro dai tagli decisi dai vertici. Anche nella sede bergamasca di via Zanica, in cui lavorano 280 persone, si susseguono le mobilitazioni: la Cub ha indetto scioperi a sorpresa dal 2 al 29 agosto per due ore a inizio o fine turno, che culminano nello sciopero dell’intero turno il 14 agosto, a livello nazionale.
Le proteste si sono riaccese in seguito alla notizia che dopo soli 15 mesi di lavoro, l’ad di Telecom Flavio Cattaneo se ne è andato con una buonuscita di 25 milioni di euro, ovvero 55 mila euro per ogni giorno di lavoro. A questa somma bisogna aggiungere la “buona entrata” di 2,5 milioni di euro al momento dell’assunzione come bonus d’ingresso motivato «dalla perdita di opportunità», senza contare lo stipendio annuo lordo di 1,4 milioni, a cui si è aggiunta una componente variabile di altri 1,4 milioni. In più c’erano le azioni Telecom, per un totale di 4,4 milioni di euro. Inoltre, dal momento che sono stati raggiunti gli obiettivi del 2016, a marzo del 2017 l’azienda gli ha riconosciuto un bonus di 9,34 milioni di euro lordi.
Cosa mai avrà fatto Cattaneo per guadagnarsi queste cifre astronomiche? Per rispondere, è necessario riepilogare brevemente la vicenda della Telecom, quinto operatore al mondo nel campo delle telecomunicazioni e azienda leader in Italia, con 50mila dipendenti.
Inizialmente statale, Telecom viene privatizzata nel 1999 con Colannino, poi dal 2001 passa di proprietà di Tronchetti Provera; già nel bilancio del 2005 l’indebitamento finanziario netto risulta essere di quasi 40 miliardi di euro. In dieci anni di gestione “privata” dell’azienda, le condizioni di lavoro delle decine di migliaia di dipendenti sono via via peggiorate: sia dal punto di vista dei diritti (contratti precari, insicurezza sul lavoro) che del salario. E questo mentre vari soggetti economici “forti” del paese sguazzano con un certo profitto in questo pantano (solo per dirne alcuni: Agnelli, Olivetti, Benetton, Pirelli, Generali Assicurazioni, Mediobanca, Banca Intesa e Unicredito Italiano)…
Nel 2007 Telecom passa a una cordata italo spagnola, formata da Mediobanca, Assicurazioni Generali, Intesa Sanpaolo, Sintonia e Telefónica (azienda spagnola, una delle più grandi società di telecomunicazioni fissa e mobile del mondo, quarta in termini di numero di clienti e quinta nel valore di mercato totale), che crea una nuova società, chiamata Telco, che arriva a controllare il 23% circa di Telecom. L’azienda, nonostante gli utili in crescita, continua ad avere i conti in rosso. Nel 2013 l’ indebitamento finanziario netto è di circa 29 miliardi di euro e lordo di circa 38 miliardi di euro, mentre il fatturato è calato del 18% sul triennio 2009-2012, e nel primo trimestre del 2013 dell’8%.
Arriviamo a tempi più recenti: da ottobre 2015 il gruppo francese Vivendi, guidato da Vincent Bollorè, è primo azionista di Telecom Italia con il 23,9%, ma la questione si è complicata di recente, quando la stessa holding è diventata seconda azionista di Mediaset con il 28,8%, una decisione considerata “illegale” dall’Agcom, che ha intimato ai francesi di liquidare le proprie quote in una delle due aziende.
L’ incarico di comando per Telecom nel 2016 è stato affidato a Flavio Cattaneo (prima alla guida di Enel), a cui erano stati promessi 52 milioni di bonus in caso di riuscita di piano tagli. Ed eccoci alla risposta alla domanda iniziale: cosa ha fatto Flavio Cattaneo in Telecom? Da marzo 2016 a marzo 2017 gli utili sono saliti del 2,6% in crescita di 120 milioni. Tutto ciò, grazie al taglio del costo del lavoro; tradotto in termini semplici: gli stipendi sono calati in un anno di 88 milioni,incidendo sui ricavi dal 19% al 15,8%. I risparmi di Telecom, valsi a Cattaneo la sua buonuscita milionaria, sono in realtà ricaduti sui lavoratori. Come è avvenuto tutto ciò? Innanzitutto, sono stati disdetti il 6 ottobre 2016 gli accordi sindacali del 14 e 15 maggio 2008, togliendo giorni di ferie (da 23 a 21), ore di permesso, la partecipazione al circolo ricreativo aziendale (CRAL), maggiorazioni per festivi e notturni (fino a 2mila euro l’anno di potere d’acquisto in meno); inoltre, è stato inserito in sperimentazione a Milano l’orario multi periodale bi settimanale (che varia cioè giornalmente da 5 a 10 ore, senza saperlo prima ma rispettando il limite di 80 ore in totale su due settimane).
Da tempo, considerata la situazione, i lavoratori e le lavoratrici di Telecom si sono mobilitati: un primo sciopero a dicembre 2016 ha visto uniti tutti i sindacati, ma l’azienda ha deciso di proseguire senza ascoltare nessuno. In seguito i sindacati SLC CGIL e autonomi (di base) hanno organizzato delle proteste, ma senza ottenere incontri. La principale forma di lotta sono gli scioperi di inizio turno e fine turno, con adesioni anche dell’ 80/85%.
Il leit motiv dei dirigenti è che queste soluzioni escludono la possibilità di licenziamenti, e dunque i dipendenti dovrebbero essere d’accordo; ma i lavoratori sanno molto bene che queste mosse sono solo un tentativo di rimettere in sesto i conti di Telecom, scaricando il peso del fallimento aziendale sulle loro spalle. Infatti la crisi dell’azienda non è causata da una carenza di lavoro – che invece continua ad arrivare -, ma dalle pessime decisioni prese dalla dirigenza negli ultimi venti anni. A pagarne le conseguenze, però, sono i lavoratori: a Milano e Torino stanno chiudendo due sedi, per spostarle a Roma, e l‘unica opzione per evitare il trasferimento è la richiesta volontaria del demansionamento dal settimo al quinto livello, per poter restare nell’altra sede milanese.
L’unilateralità con cui Telecom si relaziona ai suoi dipendenti è evidente anche nelle ritorsioni contro chi protesta: tre giorni di sospensione (la sanzione appena precedente il licenziamento) al rappresentante dei COBAS per il suo discorso durante un’audizione in parlamento, a marzo, in cui aveva delineato molto chiaramente la situazione di speculazione presente in Telecom e le sue ricadute sui lavoratori. Inoltre, l’azienda ha un altro modo per colpire le mobilitazioni: TIM conferisce ad appaltatori e subappaltatori il lavoro che i dipendenti in agitazione non riescono a coprire, imprese appaltanti che, lavorando sottocosto, senza professionalità, qualità e obblighi di ottemperanza a tutta una serie di normative e vincoli, eseguono operatività senza, di contro, alcuna garanzia di affidabilità verso la clientela nonché verso l’azienda appaltante.
Ergo, un modo per esibire dati di produttività fasulla per permettere ai vari responsabili i raggiungimenti (sulla carta) di obiettivi economici di reparto e di dimostrazione di cieca obbedienza nei confronti dei vertici aziendali. I premi ai responsabili sono quindi pagati dai lavoratori e dai clienti nell’ambito di un clima aziendale dove niente più funziona ma in cui si cerca di dimostrare che tutto quadri.