Bergamo – È frutto di una società assassina lasciare che anche solo una persona possa dormire all’aperto in questi giorni. Avere costretto giorni fa il Comune di Bergamo a tenere aperta durante la notte la biglietteria della stazione delle autolinee è sicuramente un risultato: è infatti lodevole andare in prima persona, esporsi, preoccuparsi, recuperare tè e coperte, creare una vicinanza con chi è abbandonato in qualche angolo grigio di questa città e occupare uno dei “cuori” della stazione per costringere gli altri ad occuparsene.
Un lodevole atto umano, ma non politico.
In quella stazione c’è chi alcuni decenni fa ha iniziato a preoccuparsi di chi viveva in strada con le stesse modalità: Fausto Resmini. Portava tè caldo e coperte, con gli anni è riuscito a garantire la permanenza stabile di una mensa, un posto riscaldato in cui mangiare un pasto caldo. Altre mense sono aperte costantemente: dai frati cappuccini e al patronato. Allo stesso tempo altre istituzioni (cattoliche certo, ma dov’è stata la sinistra? Non è il primo inverno in cui fa freddo) hanno aumentato e garantito i posti. E per inciso, al Galgario ci vai anche se hai il foglio di via o il decreto di espulsione. Almeno al Galgario, o a Sorisole da Resmini, non fanno nessun filtraggio di questo tipo. Possiamo dire che la risposta sociale data in questi anni da Resmini, Caritas, Patronato, frati è politica? No, è assistenziale.
E l’assistenza ha qualcosa di terribile, connaturato proprio alla sua stessa azione. Nel momento in cui dà una coperta, un pasto, un bicchiere di tè gerarchizza le vite, per usare un’espressione di Butler. Gerarchizza perché crea un alto un basso, qualcuno nella posizione di dare e qualche altro nella posizione di ricevere. Si potrebbe allora obiettare: “dovremmo smettere di andare in stazione, incrociare queste persone, dar loro una coperta e lasciare che crepino?”. No, è disumano. Tuttavia dobbiamo assumerci questa contraddizione insanabile dell’assistenza. La stessa mano con cui do, crea una scala di valore fra me e l’altro. È qualcosa di terribile, è qualcosa di necessario. Eppure, a partire da questa antinomia può darsi un’azione politica che non si occupi solo della sopravvivenza degli uomini e delle donne, ma che crei una possibilità di esistenza dignitosa.
Ciò che manca a Bergamo da sempre non sono mense e letti, ma uno spazio diurno in cui chi vive in strada possa essere ospitato, per bersi un caffè senza fare l’elemosina, per farsi una pisciata senza doversi nascondere in un angolo sotto il Vittorio Emanuele, per cambiarsi i vestiti senza essere costretto a farlo nel mezzo di una pensilina, ma soprattutto per fare due chiacchiere. Quelle chiacchiere, quella necessità di parola che andiamo cercando ogni qualvolta ci avviciniamo a loro, che rende umani, che rende esistenti e che ogni atto assistenziale inevitabilmente, irreparabilmente, irrimediabilmente oblitera. Dar vita ad uno spazio diurno significa costruire una spazio di socialità che a Bergamo manca. Riconoscere che chi è in strada non è solo necessitante, ma un uomo o una donna dotati di parola che possono e vogliono dibattere, scherzare, conversare, giocare a carte, sedersi su un divano. Chiariamo, non è che un diurno possa risolvere i problemi di chi vive per strada e non è neppure vero che esso non ponga dei problemi di gestione, a partire dagli orari di apertura per arrivare alle modalità di accesso. Pensare però di crearlo è un primo passo per pensare ad una politica che non riduca queste persone solo ad essere concepite come bisognose di pasti caldi e coperte.
Creare un diurno significa pensare a queste persone non solo alla sera, quando fa freddo, perché questi girovagano tutto il giorno quando sono sbattuti fuori dai dormitori, e si ritrovano su una panchina o in qualche antro della città, perché la città non gli ha dato nessun altro spazio per stare. Creare un diurno significa dare la possibilità di un luogo dignitoso in cui passare la propria giornata. Poi forse chi vive in strada preferirà ancora la panchina, forse si sentirà troppo condizionato anche da questo luogo, ma ciò non importa: l’importante è dare una scelta. A Bergamo questo manca, questa dimensione che riconosce le persone nella relazione è stata totalmente strappata dalla loro vita. Per cui la battaglia politica da affrontare è questa. Ed è politica appunto perché non si limita a fare assistenza, ma riconosce le persone nella loro dignità.
PS: Tutto l’articolo ha evitato di nominare chi vive in strada come “senza tetto” o “senza dimora”: non è un caso. Si è voluto proprio evitare di ricadere in una logica che privilegia la dimensione materiale.