Riceviamo e pubblichiamo questa riflessione riguardo lo spazio pubblico e quello privato, e come queste dimensioni sono mutate da quando Bergamo e l’Italia intera si ritrovano a dover affrontare l’emergenza Covid-19.
“Ora che la differenza fra spazio pubblico e spazi privati è stata improvvisamente segnata e risignificata; ora che runners, passeggiatori, pisciatori di cani e chi altro frequenta luoghi comunitari è visto come un untore di manzoniana memoria; ora che lo spazio più intimo, quello privato, è stato pesantemente sfrondato dalle sue possibilità, perché, non solo non è più possibile accogliere un bacio o un abbraccio che venga dal di fuori delle nostre porte, ma anche perché molte delle persone, che da quelle porte sono uscite, sono ora svanite, letteralmente polverizzate, incenerite: ora, più che mai, è il momento di mettere in discussione come sono stati storicamente governati i rapporti fra pubblico e privato. “State a casa!”. Questo è il motto imperante, salvifico! È ovvio, stiamo a casa, l’immagine della colonna infame di autocarri dell’esercito che usciva qualche sera fa da Bergamo ne ha chiarito la validità più di qualsiasi altro appello (perdonate quest’altra citazione manzoniana: assicuro che chi scrive non è un reazionario).
Si è già parlato della tragedia di chi la casa non ce l’ha, si è già detto di chi, invece, è costretto a uscire per logiche di profitto: soprusi e drammi che permangono, attraversano questo momento storico e si acuiscono. Ma vi è anche chi resta a casa e la sua è una casa di merda! Perché politiche gentryficatorie lo hanno progressivamente espulso dalla città, lo spazio pubblico per eccellenza e etimologia, confinandolo in qualche periferia inquinata e anonima. È ovvio, è molto più facile rimanere a casa se si ha a disposizione un bel giardinetto, se si possono fare due chiacchiere con il vicino confidando che la siepe divisoria funga da barriera immunizzante; è più facile rimanere a casa quando le finestre affacciano su qualche luogo ameno e non sulla circonvallazione delle valli o su l’inceneritore della A2A. Lì, invece, conficcatati in spazi spesso angusti, sono attualmente costrette centinaia di famiglie. Lì, dove da sempre è più pericoloso aprire le finestre che tenerle chiuse, logiche imprenditoriali e politiche hanno per anni segregato persone. Persone, che in termini sociali e psicologici, pagheranno un prezzo ancora più alto. Lì, oggi, è galera.
Non solo, le violenze domestiche di sicuro non caleranno in questo periodo. Anzi, con probabilità aumenteranno. Questo è l’altro dramma non detto, occultato dai giornali, ma che molti mediatori familiari, psicologi e educatori vivono e vedono accadere sotto i propri occhi, senza riuscire a fare molto, proprio ora che non possono avere accesso a quelle case. Ormai il legame con quelle persone è limitato ad una telefonata, quando va bene. Cosa si può dire, però, a quelle donne, a quelle figlie, di quei figli? Rimanete a casa perché lì siete al sicuro? Ma ne siamo sicuri?
Non è un invito a uscire. Ad oggi, è sempre più chiaro che ognuno è un possibile responsabile della morte di un altro. Non occorrono troppi giri di parole. Fanno così impressione le parole di un anziano trasmesse da una importante testata nazionale qualche giorno fa. Beccato passeggiare a diversi chilometri da casa, ha detto alle forze dell’ordine che non gli importava ammalarsi perché ormai era vecchio e non aveva più nulla da chiedere alla vita. Fanno impressione perché sembrano il naturale precipitato di una società che non solo ha scartato l’improduttivo, ma ha fatto in modo che la persona stessa significasse la propria esistenza come ormai inutile. Fanno impressione eticamente perché uno può anche avere il desiderio di morire, ma non può fregarsene della morte altrui. Fanno impressione perché parlano di uno spazio comune disgregato e di uno spazio privato asfissiato.
Come uscirne, allora? Non c’è risposta. C’è, però, nella parole del governatore Fontana degli ultimi giorni estremamente qualcosa di significativo. È scontento perché arrivano solo un centinaio di soldati per presidiare le strade. Vorrebbe, a suon di mitra spianati, confinarci nei nostri spazi privati e impedirci definitamente di uscire. Questo è il suo modello. Da questa situazione se ne esce così. Sicuramente è efficace ed è il modo migliore di non rimettere in questione gli status quo. Ma sarà sempre una via cieca. Perché l’unico modo di uscirne è pensando e realizzando un nuovo modello di partecipazione e compartecipazione allo spazio pubblico. Se ne esce lottando per l’altrui diritto, perché, mai come oggi, la mia e la sua vita sono così fatalmente legate.“